«E’ un mio onore e privilegio condannarla. Ho appena firmato la sua condanna a morte». La giudice Rosemarie Aquilina, del Tribunale di Lansing nel Michigan, ha chiosato, così, in aula, rivolta all’imputato Dopo aver pronunciato una sentenza di condanna a una pena che va dai 40 ai 175 anni di carcere, per Larry Nassar, il medico della Nazionale americana di ginnastica artistica che tra il 1996 e il 2012 ha abusato, di centinaia di ragazze per la gran parte minorenni. Poco prima, sempre in aula, la stessa giudice aveva affermato: «Il prossimo tribunale sarà quello di Dio (nel senso che Nasser non uscirà più di prigione ndr.)».

Il processo era di quelli ad alto tasso emotivo: ce ne sono in tutto il mondo. Ma le frasi della giudice spiazzano ugualmente chi è abituato agli algidi dispositivi di sentenza italiani. Per non dire del gesto sprezzante con cui aveva lasciato cadere, senza leggerla, la memoria difensiva.

È comprensibile che l’indignazione sia forte per un reato tanto odioso, comprensibile e pure auspicabile che ci sia empatia nei confronti delle vittime, arrivate a raccontare quanto subìto davanti a una Corte e al loro aguzzino, ma forma e tono alle nostre latitudini suonerebbero fuori misura nel ruolo e nel contesto.

L’ultima volta che da queste parti abbiamo sentito evocare il giudizio di Dio a quella maniera era il 9 maggio 1993 nella Valle dei Templi di Agrigento, quando Giovanni Paolo II gridò ai mafiosi stragisti di cosa nostra: “Convertitevi, verrà un giorno il giudizio di Dio”, ma era un Papa a parlare non un giudice abituato a far sparire, anche nelle parole e nella forma, i personalismi sotto il nero e le mercerie dorate della toga.

È vero che Rosemarie Aquilina sta diventando un’icona per i social network, che il suo modo di esprimersi buca il video, ma difficilmente ne vedremo di simili (per fortuna) nei nostri tribunali: siamo abituati a tutt’altro e stenteremmo a riconoscere la “liturgia” della giustizia qualora improvvisamente si esprimesse così.

Se una qualche forma di emotività è concessa nel processo italiano si ferma alle “parti”: alle arringhe degli avvocati, alla requisitoria del Pubblico ministero, ma rarissimamente sconfina oltre l’indignazione istituzionale quando magari si tratta di far notare l’efferatezza di un delititto aggravato dalla crudeltà. Al momento in cui la sentenza si pronuncia, il giudice parla la lingua asettica della legge: solo la decisione (condanna o assoluzione) esprime il libero convincimento di chi l’ha pronunciata. Il percorso della decisione è affidato alle motivazioni scritte, ma si tratta pur sempre di un fatto tecnico, utile a dar conto di aver rispettato le regole del diritto e la logica del ragionamento alla corte del grado di giudizio successivo, non certo a lasciar trasparire giudizi morali riconoscibili nella chiosa alla sentenza della giudice americana che il web ha trasformato velocemente in un personaggio: uno stile impensabile da noi, dove il giudice nella forma neutra del suo pronunciarsi mostra la sostanza della propria imparzialità e il volto dello Stato.

Sarebbe anche censurato e censurabile, un commento così: susciterebbe un vespaio, perché - per i nostri standard e per la nostra cultura giuridica - contiene un tasso di sentimento tale da far apparire condizionato il giudice che vi si abbandonasse. Non tanto e non solo per quel tribunale di Dio evocato (che forse ha più a che fare con la tradizione che con la religione, se è vero che i giudici della Corte suprema americana giurano ancora con una formula che conclude con un «Che Dio mi aiuti»), quanto per quel dirsi «onorata nel condannare», che a noi abituati diversamente, richiama più la vendetta che la giustizia.