Dal mondo del lavoro arriva un messaggio di fraternità in un tempo in cui crescono muri, tensioni e guerre dimenticate. Si chiama “Peace at Work – L’Italia del lavoro costruisce la pace” ed è la nuova campagna delle Acli per accendere l’attenzione sui temi della pace, del disarmo e della giustizia sociale a partire dal mondo del lavoro. Una carovana che da settembre a dicembre attraverserà l’Italia, con partenza il 2 settembre da Palermo, coinvolgendo associazioni, giovani, scuole, lavoratori e toccando una sessantina città italiane, periferie e territori spesso dimenticati. Dal dialogo interculturale nelle fabbriche, ai progetti di inclusione e cooperazione internazionale, perché la pace, come sottolineano le Acli rilanciando un impegno storico dell’associazione, non è un’utopia, ma una responsabilità civile e quotidiana che va costruita nei luoghi dove si vive, si lavora, si educa. «Pace e lavoro sono parte di un’unica visione di società», spiega il presidente nazionale Emiliano Manfredonia. «La pace non è assenza di conflitto, ma capacità di costruire legami non violenti, anche nel dissenso. È un valore da tenere vivo. Un cammino da condividere. Vogliamo spezzare l’indifferenza che ci rende spettatori passivi davanti alle guerre, alle ingiustizie economiche e ai drammi umanitari».

Papa Leone ha lanciato un’offensiva di pace su Gaza…

Quello che stiamo vedendo in questi giorni a Gaza supera ogni immaginazione: è in atto un vero e proprio sterminio, ogni giorno si aggiungono crimini contro l’umanità. Bisogna fermare tutto questo. Abbiamo visto le ferite aperte della guerra in Ucraina e nei Balcani. Le immagini che scorrono davanti ai nostri occhi non possono non sollevarci un’inquietudine. Non possiamo essere quella generazione che domani verrà interrogata con frasi del tipo “voi dov’eravate quando a Gaza i bambini in fila per prendere il cibo venivano uccisi?”. Siamo uomini di pace ma non siamo in pace. Come ci ha insegnato papa Leone, noi andiamo disarmati, non abbiamo tutte le soluzioni, ma cerchiamo di sciogliere il nodo dell’indifferenza, di trovare degli orizzonti comuni, con la consapevolezza di quello che sta succedendo. La pace va costruita con tutti, anche con chi ha iniziato la guerra. È il primo dei diritti. O è di tutti o non è di nessuno.

Quindi, la pace come lavoro?

Il tema è la pace al lavoro e lavorare per la pace. Al centro della carovana ci sarà il mondo del lavoro come suo luogo fondativo.

L’articolo 1 della Costituzione recita che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro…

Il lavoro è creazione, costruzione, vita, il contrario della guerra, che invece è distruzione, inquinamento, vuoto. Dove c’è sfruttamento, disuguaglianza, precarietà, il conflitto serpeggia. Dove invece ci sono diritti, rispetto e cooperazione, può nascere una società più giusta e inclusiva. L’obiettivo è ridare centralità alla pace come diritto umano e bene comune, anche dentro le tensioni del presente. Dall’instabilità geopolitica al disagio sociale, la pace viene oggi sfidata su più fronti. Le Acli scelgono di rispondere con la presenza, la parola e la responsabilità. Per questo il percorso coinvolgerà delegati sindacali, cooperative, imprese etiche, centri di formazione e giovani professionisti, creando una rete di testimonianze e buone pratiche.

Un modo per denunciare la logica tossica secondo cui “la guerra fa bene all’economia”?

I governi stanno pensando di investire fino al 5 per cento del Pil in armamenti.  L’idea che l’economia possa ripartire attraverso l’investimento in armi è una bugia colossale, e lo dicono i rapporti dell’Ocse e di Greenpeace. Ogni miliardo speso in armamenti è vero che porta tremila posti di lavoro, ma in pil sono “solo” 740 milioni di euro. Se quello stesso miliardo lo spendessimo nella sanità pubblica, nell’istruzione o addirittura nella conversione ecologica della nostra economia, porterebbe più di diecimila posti di lavoro e raddoppierebbe il Pil investito. Se per avere la pace prepari la guerra e quindi riempi gli arsenali, prima o poi la guerra la trovi. E dopo ci sarà un problema ecologico e di riconversione di un’economia di guerra in un’economia civile.

Quali sono le tappe più significative della Carovana?

Sicuramente quella che incrocerà la Marcia per la pace Perugia-Assisi del 12 ottobre e la tappa speciale sulla rotta balcanica organizzata in collaborazione con l’ong Ipsia Acli e il Cta. Assisi, cuore spirituale del messaggio di Francesco e culla del pensiero non violento, ha un forte valore simbolico. Saremo anche all’Ilva di Taranto, nel carcere minorile di Cagliari e a San Michele di Formazza con un campo estivo gestito dalle Acli in collaborazione con la Caritas e dove verranno accolti settanta giovani ucraini. E andremo nel cimitero dove riposa don Tonino Bello, in Puglia, meta di pellegrinaggi e di preghiera e riflessione. In provincia di Chieti, invece, ci sarà il lancio di quattrocento aquiloni della pace.

Le nuove generazioni sembrano sensibili ma disilluse. Come le Acli intendono coinvolgerle e renderle protagoniste di un nuovo impegno?

Ci proviamo con la Carovana, con un’azione in movimento che dura non un giorno ma per più tempo. Non sarà solo una marcia simbolica, ma un laboratorio sociale e civile, con incontri pubblici, forum, testimonianze, mostre e performance artistiche. Vogliamo fare un lavoro educativo, che è quello che manca oggi, inflazionati come siamo dai conflitti, dall’individualismo e dalla competitività estremi. Dobbiamo ragionare su un mondo di cooperazione, di mutualità.

La marcia ha un significato politico?

La marcia è educativa ma è anche politica, infatti finirà a Strasburgo. Oggi non ha fallito la politica della diplomazia, ma la politica che non trova altre strade, e che noi denunciamo con grande forza.

In che modo le Acli intendono interpellare le istituzioni attraverso questa iniziativa?

Noi ci mettiamo in cammino come i viandanti, perché la pace si costruisce dal basso, incontrando le comunità, facendo manifestazioni.  L’ultima tappa italiana sarà il 10 dicembre, Giornata Internazionale dei Diritti umani, a Milano, perché senza diritti non c’è nessuna costruzione. A Strasburgo, invece, faremo un appello alle istituzioni dell’Unione per rilanciare a partire dal lavoro una nuova stagione di dialogo ispirata allo spirito di Helsinki. Siamo un’associazione di persone e abbiamo la responsabilità di portare queste voci nel contesto politico, che ci può ascoltare o meno. La guerra è sì il naufragio dell’umanità, ma prima di tutto è il fallimento della politica. La guerra non vince nulla. Quella che va vinta è la pace. Non ci è chiesto singolarmente di risolvere i problemi del mondo, ma di accendere la scintilla. Perché nella notte più profonda quella scintilla la vedi. Per noi vuol dire offrire uno spazio concreto di impegno, di presenza. Ciò che mi spaventa da padre di un figlio di diciassette anni è questa politica del più forte, che non ha sbocchi, che è urlata. Una politica che non è un luogo dove si conciliano le differenze, ma è un luogo di polarizzazione dove si inaspriscono. E dove, di conseguenza, perdiamo tutti.