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Chi ama il tennis, non neofita dell’ultima ora, sa bene che il mondo si è spaccato tra Roger Federer e Rafael Nadal, con Novak Djokovic a fare da terzo incomodo: uno svizzero di madre sudafricana, un isolano delle Baleari, un serbo, non esattamente grandi potenze. E prima tra Borg e McEnroe, uno svedese e un americano di origine scozzese. Mai li si è scelti per campanile, ma sempre per stile, per attitudine, per temperamento: Borg e McEnroe perché erano ghiaccio vs fuoco, imperturbabilità vs intemperanza. Si sosteneva André Agassi per la sua diversità: con l’aria da pop star rompeva la monotonia dei gesti bianchi. Si amava Federer per il suo genio tennistico, per la bellezza che dispensava; Nadal per la sua generosità caparbia. Djokovic, almeno all’inizio più che amato era ammirato, per la tigna e per la precisione, per il suo essere straordinariamente professionista, anche se gli remava contro l’essere terzo tra gli altri due.


Quando a metà anni Settanta Chris Evert e Martina Navratilova nei loro stili antitetici quanti altri mai diedero vita alla più spettacolare rivalità nella storia del tennis femminile, nessuno si chiedeva quanto fosse americana la cittadinanza acquisita di Martina dopo la fuga dalla Cecoslovacchia, semplicemente sceglieva a gusto e sentimento il suo serve and volley, o, a contrario, la regolarità elegante della sua avversaria e amica. Sono amiche ancora adesso, si sono sostenute a vicenda, e ancora lo fanno, nell’affrontare il cancro che ha colpito e più di una volta entrambe.


E quando al Roland Garros del 1989 il mondo tifò per Michael Chang con i suoi 17 anni e il suo metro e 70 contro gli Edberg e i Lendl di tutt’altra statura e struttura lo fece non perché era un americano di origine cinese contro uno svedese e un cecoslovacco, ma perché era Davide contro Golia e tendeva a suon di tifo la fionda per vedere come sarebbe andata a finire.
Vedere come va a finire è la ragione per cui il pubblico nelle partite di tennis può scegliere di schierarsi da una parte o dall’altra e nemmeno sempre la stessa anche nel corso della medesima partita: se un incontro è troppo dispari e ha l’aria di finire in fretta chi fin lì ha scelto un campo senza avere una ragione precisa, magari lo cambia, perché vuole il terzo set o il quinto, e si mette con chi sta perdendo per vedere la partita fino in fondo e vederla combattuta.
È la stessa ragione per cui il vecchio lupo Novak Djokovic che ha giocato sempre a volte aizzandolo contro il pubblico, schierato con Federer e Nadal, ora come mai prima, in svantaggio fisico per l’età, trova il sostegno dalla sua: c’è l’ammirazione per il suo non arrendersi, per il suo non mollare una palla a costo di restare a terra ansimante in mezzo al campo.


E chi oggi chiede a Sinner patenti di cittadinanza ancora non ha capito che là fuori nel mondo del tennis che non dorme mai perché vive a tutti i fusi orari, per pochi che lo dovessero rinnegare, c’è un pianeta intero pronto ad adottare il campione del momento. Che è già di tutti. Come lo è Alcaraz, perché chi conosce il tennis sa che per avere belle partite a lungo la vera scommessa è tifare per il tennis, ossia per la loro rivalità e la loro alternanza.
E non è un caso che se i due gironi delle Atp Finals a Torino non sono intitolati a Panatta e a Pietrangeli, come campanile suggerirebbe, ma a Bjorn Borg e Jimmy Connors: uno svedese algido andato vincente veloce come Giulio Cesare in Gallia, veni, vidi, vici e via in poche stagioni e il suo opposto, un americano che ha detto in campo parole irripetibili agli arbitri ma che ha resistito fino a quarant’anni e vinto più titoli di tutti. Sono la storia del tennis per tutti anche per quelli che non hanno fatto in tempo a vederli in campo neanche dalla Tv.



