«È un momento vivace nella comunità scientifica: abbiamo cure innovative, abbiamo una legge specifica. È il momento giusto, quindi, per parlare di obesità e sensibilizzare il più possibile l’opinione pubblica sulla gravità di questa malattia, in continuo aumento, in Italia e nel mondo», ha esordito così Simona Bertoli, direttrice dei Centri Obesità dell’Irccs Auxologico di Milano, che ha coordinato l’incontro promosso dalle Fondazioni Ambrosianeum e Matarelli dal titolo “L’obesità: malattia cronica del terzo millennio”.

E proprio dai dati bisogna partire per comprendere quanto questa patologia sia diffusa: dal 2000 a oggi la tendenza è in crescita, soprattutto tra gli uomini, arrivando a coinvolgere l’11,8% della popolazione. «E non parliamo solo adulti», ha specificato Bertoli, «ma anche dell’età evolutiva: un ragazzo su quattro – tra i 3 e i 17 anni (il 26,7%) – ha un eccesso di peso. Non abbiamo ancora trovato la strada per fermare questo trend negativo, ma i progressi della medicina sono incoraggianti. A preoccuparci è anche il forte divario tra il Nord e il Sud – dove la patologia è più presente – sia tra le regioni italiane, sia tra i Paesi europei e negli stessi Stai Uniti».

È il momento di acquisire una nuova consapevolezza riguardo a questo tema, ancora oppresso da pregiudizi e false convinzioni, che non fanno che ostacolare la possibilità di uscirne, a partire dalla prevenzione. Il sovrappeso, infatti, ancor prima che diventi obesità vera e propria, non va mai sottovalutato, specialmente se l’accumulo di grasso si concentra nella zona addominale, provocando infiammazione e mettendo a rischio la salute di tutto l’organismo. «Se consideriamo la totalità delle persone con obesità, meno del 40% viene diagnosticato, meno del 20% viene trattato e solo l’1,3% viene curato con i farmaci o la chirurgia», ha dichiarato l’esperta. «Questi dati ci fanno capire come sia necessario accendere una luce sulla patologia, favorendo la presa in carico dei pazienti prima che si arrivi a uno stadio avanzato».

Non è una questione estetica, è in gioco la vita

«Le immagini femminili dell’antichità ci mostrano come all’epoca l’eccesso di peso fosse considerato sinonimo di bellezza e spesso di fertilità», ha spiegato Alberto Battezzati, direttore dell’Unità operativa di Nutrizione clinica dell’Istituto Auxologico di Milano. «Nei secoli questa immagine si è modificata, sono cambiati i modelli estetici e il nostro rapporto con il cibo, che è diventato conflittuale. Fino ad arrivare al secondo dopoguerra quando non solo è nata la Barbie, simbolo di magrezza e bellezza assoluta, ma sono anche stati riconosciuti dalla comunità scientifica i Disturbi del comportamento alimentare, in primis l’anoressia nervosa, nel 1952».

Oggi facciamo i conti con una malattia che accorcia l’esistenza, e non di poco. Nei casi di obesità lieve la durata media della vita si riduce dai 2 ai 4 anni, nelle forme gravi dagli 8 ai 10 anni. La patologia infatti porta con sé una serie di complicanze che coinvolgono tutti gli organi: dal diabete alla steatosi epatica (fegato grasso) ai disturbi cardiovascolari ai tumori.

«L’obesità è la punta dell’iceberg», ha chiarito Battezzati, «tutti in casa hanno una bilancia e possono controllare il proprio peso. Quella che resta sommersa e ignorata è la situazione sottostante, spesso molto complessa, alla quale si potrebbe non arrivare grazie a esami di controllo periodici».

Meno discriminazione, più supporto sul lavoro

Le persone con obesità fanno più fatica sul lavoro. Non solo da punto di vista fisico, ma anche e soprattutto sotto l’aspetto psicologico e relazionale. «Spesso sono considerati dipendenti di serie B, non adatti ai contatti con il pubblico. E finiscono a fare i telefonisti», ha affermato Luisella Vigna, dirigente medico di Medicina del lavoro all’ospedale Maggiore Policlinico di Milano e presidente ADI (Associazione italiana di dietetica e nutrizione clinica) Lombardia. Una discriminazione diffusa, figlia di uno stigma difficile da superare. «La persona obesa viene considerata colpevole, responsabile della propria condizione. “Mangi tanto, non ti muovi, sei grasso”, questa è l’equazione». Un modo errato e semplicistico per identificare una patologia cronica e multifattoriale, dove la componente genetica è determinante.

 «Il lavoro inoltre può esporre alcune persone più di altre ad ammalarsi», ha proseguito Vigna. «Il lavoro notturno e quello su turni ne sono un esempio. L’alterazione del ritmo circadiano sonno-veglia, senza la possibilità di un recupero adeguato a casa, favorisce l’aumento di peso. Se a questo aggiungiamo i pasti notturni e molti caffè zuccherati, comprendiamo facilmente perché queste persone accumulino mediamente 10 chili in un anno». Si può fare qualcosa per rimediare? In realtà sì. «Tutti abbiamo abitudini alimentari scorrette. L’ideale sarebbe iniziare a modificarne almeno una», ha risposto il medico del lavoro. «È l’intento dei counseling nutrizionali e motivazionali all’interno delle aziende. Il ruolo del medico del lavoro in questa fase è fondamentale. La fabbrica, l’ufficio, il negozio: la maggior parte delle persone trascorre in questi luoghi l’intera giornata, in genere seduta o in piedi facendo poche pause. È in questo contesto che bisogna agire per cambiare le cose e prendersi cura della propria salute. Fornendo indicazioni nutrizionali e comportamentali ai dipendenti e adattando i menù delle mense aziendali agli orari di lavoro».

La nuova legge, un punto di partenza

Dal primo ottobre scorso l’Italia, primo Paese al mondo, ha una legge ad hoc sull’obesità, che ha dichiarato la malattia una patologia sociale, cronica e recidivante. Un primo passo importante vero la presa di coscienza di un problema che non può più essere ignorato.

«Abbiamo a disposizione farmaci efficaci e sicuri – gli analoghi del GLP-1 – ma molto costosi», ha concluso Simona Bertoli. «Le risorse stanziate dal Governo non sono sufficienti», «ma siamo fiduciosi che la nuova normativa ci consentirà, con il tempo, di rendere le cure anti-obesità sempre più accessibili ai pazienti, a partire dai casi più gravi con complicanze».