Veronica Panarello è stata condannata a 30 anni di reclusione in primo grado dal Gup di Ragusa, il massimo della pena compatibile con il rito abbreviato, per l’omicidio del suo bambino Loris Stival, otto anni, e per l’occultamento del suo cadavere, senza le aggravanti delle sevizie e della premeditazione.

Ci sono casi a fronte dei quali per quanta giustizia si faccia restano ferite impossibili da riparare. Il caso di Loris è uno di questi. Ci sono situazioni nelle quali la realtà supera la più nera delle storie nere che un romanziere possa inventare. La storia di cui sopra è una di queste. Se n’è parlato per mesi, al di là del bisogno. Gli ingredienti per tenere avvinto un pubblico c’erano tutti: la menzogna, il torbido, le accuse reciproche, l’omicidio.

La sentenza di primo grado arriva ora, altre arriveranno in secondo grado e in Cassazione, difficile immaginare che indipendentemente dalle motivazioni un caso di questa gravità non venga impugnato in tutti i gradi. Daranno l’unica risposta che uno Stato di diritto può dare a un crimine efferato: una risposta nelle regole, in questo senso razionale, una risposta non emotiva.

Ma c’è qualcosa cui questa risposta – se davvero è andata come la sentenza di primo grado ricostruisce - non potrà davvero rispondere: ed è la solitudine che deve avere provato un bambino di otto anni nella sua casa, davanti alla mamma, prima di andare a scuola. In un contesto che, nell’ordine delle cose come dovrebbero essere, è lì per difenderlo dai pericoli del mondo, per farlo crescere in un ambiente protetto che gli insegni a poco a poco a diventare grande e autonomo.

E, invece, nella vita di questo bambino quell’ordine, che è l’ordine della natura (mamma orsa può uccidere, ma lo fa per sfamare o per proteggere i cuccioli) il mondo è andato sottosopra. Chi avrebbe dovuto proteggerlo, secondo i giudici,  gli ha teso una trappola. Solo le motivazioni chiariranno il movente, se davvero sia stato perché  – come la stessa madre ha detto ai giudici non si sa ancora se solo per salvarsi o perché era la verità - Loris, a otto anni, era stato testimone incolpevole e inconsapevole, di un segreto più grande di lui. 

L’abisso di solitudine davanti al quale il piccolo Loris dev’essersi trovato, l’abisso di paura che deve avere provato accorgendosi di essere tradito da chi per definizione non avrebbe potuto tradirlo mai è quanto di più terribile si possa sforzarsi di immaginare, è l’abisso dell’incomprensibile, a fronte del quale restano senza parole ragione e fede, davanti al quale l’unica risposta possibile è l’immensa pietà per uno di questi piccoli atterrato nel mondo così male. La seconda dovrebbe essere il rispetto per la sua breve sfortunatissima vita, ma per quello è troppo tardi: il rispetto l’abbiamo perso fin dai primi giorni, dandolo in pasto al pubblico come la vittima dell’ennesimo noir.