Fosse ancora qui con noi, le chiederemmo consiglio per le nostre culle vuote, per le scuole materne che chiudono, per la crisi demografica. Valeria Solesin, a Parigi, dopo la doppia laurea a Trento e a Nantes in sociologia, stava studiando proprio questo. Da sociologa e demografa attenta aveva capito che lì si giocava il futuro delle nostre società. Il suo progetto di tesi di dottorato alla Sorbona s’intitolava ‘Uno o due figli? Un’analisi delle determinanti della fecondità in Francia e in Italia’.
Poi, al Bataclan, terroristi islamici hanno spezzato la sua giovane vita. Nel ricordo di tutti è rimasta piazza San Marco, quella bara davanti alla Basilica e attorno i rappresentanti di tre religioni, uomini di Stato e tanti giovani come lei, pieni di speranze spezzate. È accaduto dieci anni fa, il 13 novembre 2015.
«Malgrado tutto, questi dieci anni sono passati in fretta – racconta la mamma, Luciana Milani –. Il decennale comunque si carica di una certa enfasi che sentiamo in noi e attorno a noi: che le persone vogliano ricordare mi sembra una cosa bella, quindi mi fa piacere».

Com’era sua figlia?
«Valeria era una persona molto attiva, intelligente e brava. Incline a parlare con le persone, estroversa, grande organizzatrice delle cose che progettava. Le piaceva stare con gli amici, era una persona simpatica. Impegnata nel mondo del volontariato, si era avvicinata giovanissima a Emergency. Ottenuta la doppia laurea, conoscendo bene il francese, fece domanda per un master a Parigi».

In memoria di Valeria è nato un premio che sostiene le migliori tesi universitarie sul ruolo della donna per il progresso economico.
«Fu un’idea del Forum della Meritocrazia. Un premio nato sulla scia dell’emozione che la morte di Valeria aveva provocato. Tra poco celebreremo la nona edizione. Sono state tante le iniziative. A Venezia c’è un ponte dedicato a lei, a Varese una piazzetta nel giardino del Liceo Musicale».

Cosa hanno rappresentato?
«Sono state altrettante occasioni di memoria. Molte realtà diverse sono state colpite da questo evento. Mi pare sia stato un po’ preso a simbolo di tanti giovani che studiano, che lavorano, che si danno da fare e che magari fanno fatica a fermarsi in Italia, ma avrebbero sempre desiderio di ritornare in Italia, come sperava sempre Valeria».

In qualche modo questa vicenda è entrata nella storia del nostro Paese e dell’Europa?
«Non so… un po’ sì. Tanti mi chiedono di parlare in questo decennale: vuol dire che è rimasta nella memoria collettiva. Vedo un interesse al di là del locale, è diventata un pezzo di storia».

Sono passati dieci anni, sembra che il mondo abbia aumentato la cifra di odio e sofferenza.
«Accolgo tutto questo con dispiacere e anche con sconcerto. Impensabile che le cose peggiorassero fino a un punto così doloroso. Guerre in Europa, in Medio Oriente, contrastarle è al di là del nostro potere. Certe volte è anche difficile capire».

L’unico terrorista sopravvissuto, al processo, non mostrò mai alcun pentimento. A volte l'uomo è un abisso.
«Ci sono uomini e uomini, non sono tutti come quello processato in Francia. Io ho fiducia negli esseri umani: la speranza è costitutiva della natura umana. Senza quella non si potrebbe andare avanti. Ci sono cattivi che fanno azioni cattive, ci sono sempre stati; ci sono le leggi che hanno gli Stati. La giustizia umana ha degli strumenti».

Il Patriarca di Venezia, il giorno del funerale, disse ai terroristi: ‘Non riuscirete a portarci a odiare’. È possibile non odiare?
«È possibile e anche necessario. L’odio non porta da nessuna parte. Le prime persone che vengono distrutte dall’odio siamo noi, se ci mettiamo su questa strada. Anche pensando a chi ha messo in piedi la strage: sono state vittime di loro stessi, sono state le prime vittime delle loro cattive azioni. Cosa ne hanno concluso?».