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Il dramma di un bambino di 9 anni, ucciso dalla mamma, seguita per una salute mentale fragile, nel corso di uno dei primi incontri non protetti dalla presenza degli educatori, nel contesto di una separazione sofferta è quanto di più difficile da accettare dal punto di vista sociale. Quanto e persino più – dato che c’è di mezzo un piccolo e la persona di cui naturalmente più si fida - dell’accoltellamento casuale avvenuto a Milano poche settimane fa. Al centro sempre la salute mentale e valutazioni di pericolosità che a posteriori sono state tradite dalla prova della realtà. Ne parliamo con Enrico Zanalda, presidente della società italiana di Psichiatria forense, che per mestiere si occupa proprio del punto di incontro tra la psichiatria e la legge.


Dottor Zanalda, che cosa succede in questi casi e che cosa possiamo dire all'opinione pubblica per aiutarla a interpretare casi che suscitano tanta inquietudine?
«A differenza di quello che si potrebbe pensare, i figlicidi non sono per la maggior parte commessi da persone in cura per il loro stato mentale, anzi nel 72% dei casi a commetterli sono persone sane, o comunque che non hanno destato l’attenzione dei servizi sociali. È naturale che sia più difficile accettare che possano accadere anche in situazioni in cui quell’attenzione c’era: in questi casi è in gioco soprattutto la valutazione della capacità genitoriale, che in una persona con disturbo mentale, è magari un po' attenuata, ma non esclusa a priori. Sicuramente c'è una difficoltà di prevedere questi comportamenti perché sono effettivamente difficilmente prevedibili, poi talvolta può esserci anche una carenza nel seguire in maniera corretta queste persone, però io credo che il problema stia più nella difficoltà di prevedere».
Quando si tratta di genitori, e di madri, si sente spesso dire che questi atti terribili vengono commessi nel timore di perdere per sempre l’affidamento dei figli, è verosimile?
«Sì. La separazione è un momento molto delicato per la coppia e alcune persone più fragili possono viverlo molto male e, senza mai essere stati in cura, avere dei comportamenti assolutamente fuori luogo. Bisognerebbe riuscire a intercettare i momenti delicati della vita delle persone in cui possono uscire le fragilità. Servirebbe un lavoro a tutto tondo in tema di relazioni, con l’educazione, con la prevenzione, sulla società nel suo complesso, non solo sui malati».
Può spiegare che cosa è e come si valuta la pericolosità sociale di cui si è parlato nel caso dell’accoltellamento di Milano?
«La pericolosità sociale è un concetto giuridico per il quale un tribunale richiede a un perito di valutare una persona che ha avuto un vizio di mente, e che ha commesso in passato un reato connesso con il suo stato mentale alterato – e che quindi ha avuto riconosciuta una capacità attenuata o incapacità di intendere e di volere in base agli articoli 88 e 89 del codice penale –, per capire se e quanto resti pericolosa nel tempo. Si tratta di una valutazione molto difficile da compiere, perché la pericolosità sociale non è un marchio indelebile destinato a restare costante, ma qualcosa di dinamico che può modificarsi e anche attenuarsi nel tempo. Pensiamo al caso dell’accoltellamento di Milano, si trattava di un uomo che aveva una seminfermità mentale, per cui aveva scontato la sua pena e poi fatto un percorso si cura in una Rems, al termine del quale era stato giudicato non più socialmente pericoloso, purtroppo, invece, è tornato a commettere un reato simile a quello che aveva già commesso. Ma non è la regola, nella maggior parte dei casi questo non accade, anche se ovviamente non lo si viene a sapere perché gli esiti positivi non fanno notizia. Poi occorre dire che in realtà le persone che hanno una salute mentale precarie non commettono più reati rispetto ai sani».
In questi casi è naturale però l’istinto sociale di chiedere di tornare indietro, di tornare a recludere, per tutelare gli altri. È una tentazione comprensibile?
«Comprensibile sì, ma a mio avviso poco utile oltreché umanamente costosa: dicevo prima che la stragrande maggioranza dei figlicidi è commessa da persone che non hanno o di cui non si conoscono disturbi mentali, rinchiudere chi li ha non tutelerebbe dagli altri e intanto vorrebbe dire recludere per la maggior parte persone che non sono pericolose, a loro danno. Anche perché non è tanto forse la patologia in sé a influire su questi comportamenti violenti quanto l'insieme delle situazioni: l'occasione, l'ambiente e il carattere delle persone che può complicare e rendere molto difficile la previsione. Quindi io dico: no, non bisogna tornare indietro, certamente bisogna migliorare il più possibile nel darsi degli indicatori che possano in qualche modo aiutare a intercettare i segnali di pericolo, sapendo però che avremo sempre una componente di imponderabile e non saremo mai in grado di prevedere tutto».
Il sostegno alla salute mentale è anche un tema di risorse, ci ripetiamo che la coperta è sempre corta. C'è questo problema?
«È una delle cose che diciamo da anni, sicuramente i servizi dovrebbero essere più estesi, però nello specifico io non vedo tanto un problema di risorse, ma di difficoltà della previsione. Anche nei Paesi dove c'è un investimento maggiore, forse anche in quelli dove sono aperti i manicomi con i loro costi umani, queste cose capitano comunque».



