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«Rispondo a tutto, ma non mi chiedere quand’è stata l’ultima volta che mi sono confessato!». Inizia così il mio incontro con Marco Paolini, autore, attore e regista bellunese. È lunga la sua strada nel teatro civile: Paolini, con i suoi spettacoli, denuncia, coinvolge, chiama alla responsabilità. La suo notorietà è legata al monologo "Il racconto del Vajont", che portò in tv con grande successo il 9 ottobre 1997: quest’anno, per i sessant’anni dalla tragedia che inghiottì interi paesi e uccise quasi 2 mila persone, Paolini ripropone la lettura del suo Vajont come monito per il futuro.
Vajonts 23 andrà in scena il 9 ottobre in oltre 150 teatri, più un numero imprecisato di realtà: si leggerà il monologo, per fermarsi alle 22.39, all’ora e minuto esatti in cui la diga crollava. L’iniziativa si inserisce nel progetto La Fabbrica del Mondo cui Paolini sta lavorando da tempo: un laboratorio di storie – con il coinvolgimento di scienziati, giornalisti e scrittori – che sta girando i teatri d’Italia e che è diventato anche una trasmissione andata in onda su Rai 3 per lanciare l’allarme sul futuro della Terra, sempre più a rischio a causa dell’irresponsabilità dell’uomo, proprio come nella tragedia del Vajont.
«La Fabbrica del Mondo», spiega Paolini, «è un progetto di “costruttori di cattedrali”: qualcosa che va al di là della tua vita, che puoi cominciare ma che qualcun altro porterà a termine. Mi sono reso conto che parlare dell’Agenda 2030 (gli obiettivi per lo sviluppo sostenibile dati dalle Nazioni Unite) non è semplice, perché rischi di non toccare il cuore, oltre che la testa, delle persone. Come se fosse un qualcosa che non li riguardasse. Invece mi è tornata in mente l’efficacia del racconto del Vajont e mi sono reso conto che allora pensavo più alla giustizia sociale e l’attenzione era tutta sul torto subìto da una popolazione e sull’idea di renderle giustizia.
Questa storia contiene anche qualcos’altro: ci invita a ragionare sulla crisi climatica, su quello che dovremmo fare e sulle scelte da compiere. Il Vajont è una tragedia perché si sa in anticipo che succederà qualcosa che non è un evento imprevisto, ma una disgrazia ampiamente prevedibile. Trent’anni fa, quando raccontavo questa storia, tutti pensavano alla sproporzione delle forze in campo tra la società monopolista e i contadini montanari. Oggi la minaccia non viene da una singola società monopolista, ma da un cambiamento climatico provocato dal nostro modello di sviluppo».
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