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«Molti vedono mio padre come un eroe, ma io vorrei solo che fosse libero, perché è mio padre. Vorrei averlo con me a Natale, poterlo vedere. Ha una certa età, e non so quanti anni mi restino con lui, anche se dovesse uscire presto. Detto questo, la sua storia è incredibilmente ispiratrice, e sono orgoglioso di portarla avanti. Molte persone che la conoscono ne restano colpite e alimentano il proprio coraggio». Figlio del fondatore di Apple Daily, il quotidiano indipendente più letto di Hong Kong, Sébastien Lai da cinque anni vive lontano dalla sua città. Suo padre, Jimmy Lai, imprenditore miliardario e convertito al cattolicesimo, fondatore di vari quotidiani anche a Taiwan, è detenuto dal 2020 con l’accusa di “collusione con forze straniere” e “sedizione”, reati previsti dalla legge sulla sicurezza nazionale imposta da Pechino dopo le proteste del 2019. Il caso è diventato un simbolo mondiale della repressione della libertà di stampa. Oggi Sébastien è il volto internazionale della campagna per la liberazione del padre. «Un giorno sarà libero. Purtroppo non lo vedo da cinque anni, perché mi batto pubblicamente per lui, non posso davvero tornare a Hong Kong. Quanto alla speranza, sì, sono ottimista, anche se con cautela. Siamo in una situazione in cui è nell’interesse sia di Hong Kong sia della Cina liberarlo. Non c’è alcun vantaggio nel tenerlo prigioniero, ci sono solo conseguenze negative.»
Se dovesse spiegare a un giovane europeo chi è Jimmy Lai, quale immagine sceglierebbe per descrivere suo padre? L’imprenditore di successo, il credente cattolico, il dissidente politico, il tycoon la cui carriera commerciale inizia a nove anni, quando scaricava casse per un magazzino cinese?
«Credo che una cosa porti all’altra, in un certo senso. È una persona che si è convertita al cattolicesimo nel 1997».
Era buddhista?
«No, prima era agnostico. Non so se definirlo ateo o agnostico, anche se è sempre stato molto interessato alla religione».
Potremmo definirlo un “newborn” nella fede.
«Sì, relativamente nuovo. È uno di quelli che rappresentano al meglio chi non è nato nella fede o nella libertà, ma ha passato il resto della sua vita a cercare Dio, la libertà e la democrazia. Credo che questo lo riassuma bene. È anche una persona che amava “scuotere le acque”, che sentiva che esisteva una verità più grande, un senso più profondo. È per questo che è diventato anche giornalista, che ha fondato un gruppo editoriale, che ha rinunciato a tutto pur di difendere la libertà e la democrazia. Sapeva bene che, se si fosse piegato al Partito Comunista cinese, avrebbe potuto vivere una vita comoda come quella di tanti imprenditori che prosperano a Pechino o a Canton. Ma sapeva anche che Dio aveva in serbo per lui qualcosa di più, e voleva vivere, come diceva lui, una vita significativa.»
Molti osservatori internazionali considerano la condanna di suo padre un attacco diretto alla libertà di stampa. Ritiene che noi, nel mondo occidentale, stiamo facendo abbastanza per difendere questa causa?
«Siamo davvero grati per tutto il sostegno ricevuto, non solo dalla stampa ma anche dai governi di tutto il mondo. Il punto è che Hong Kong è un caso unico: continua a sostenere di avere la libertà di stampa, mentre la sta distruggendo in modo aperto e palese. Se non la difendiamo, se non reagiamo, altri governi autoritari penseranno di poter fare lo stesso altrove. Detto questo, ovviamente si può fare di più, ma siamo molto riconoscenti per il sostegno ricevuto. E spero che si faccia ancora di più, perché altrimenti mio padre morirà in prigione per aver fatto semplicemente la cosa giusta: restare a Hong Kong e difendere la libertà del suo lavoro».
L’arresto e il processo di Jimmy Lai sono diventati un simbolo del controllo di Pechino su Hong Kong. Cosa resta oggi dello spirito delle proteste del 2019, passate alla storia come le “proteste degli ombrelli”?
«Purtroppo non torno a Hong Kong da cinque anni, quindi non posso dirlo con certezza. Ma credo che oggi la città sia governata dalla paura, e che ciò che la rendeva grande sia scomparso. Ora sta a Pechino e a Hong Kong decidere se preferiscono essere una città oppressa, con un sistema legale in cui nessuno ha fiducia, oppure una città libera, con una giustizia equa e rispettosa delle promesse fatte ai cittadini».
Suo padre ha sempre detto che la fede cattolica gli ha dato forza. Crede che sia stato il suo credo a renderlo così determinato, anche di fronte alla prigione?
«Sì, certo. Penso che abbia sempre sentito una mano che lo guidava nella vita. Da imprenditore, la maggior parte delle persone punta alla ricchezza. Non ha senso, da un punto di vista economico, criticare il governo cinese se vivi di affari a Hong Kong. Ma nel 1997, con tutto lo stress del passaggio di sovranità, capì che era Dio a guidarlo. Per questo si convertì. E per i successivi vent’anni fece ciò che sapeva essere giusto, convinto che fosse ciò che Dio si aspettava da lui come cattolico. Anche in carcere, oggi, trova forza in questo: sa di stare facendo la cosa giusta, di essere fedele a Dio. Come molti cattolici, vive la sofferenza come parte del suo cammino di fede e di offerta».
Suo padre non ha fondato solo l'Apple Dayly a Hong Kong. Ha creato due organi di stampa anche a Taiwan, divenuti testate leader in poco tempo. Com'è la situazione nell'isola orgogliosamente autonoma da Pechino protetta dagli americani? La Cina non ha mai rinunciato alle sue pretese sull'isola. Ha l’impressione che la Repubblica popolare cinese sia vicina a invadere Taiwan?
«Non sono un esperto di geopolitica, ma credo che negli ultimi anni, attraverso le elezioni, i taiwanesi si siano spostati verso il partito più favorevole all’indipendenza, proprio perché hanno visto cosa è successo a Hong Kong. Questo li ha resi ancora più cauti nei confronti della Cina. Non so se ci sarà una guerra, ovviamente spero di no. Nessuno la desidera. Ma di certo i taiwanesi hanno imparato la lezione guardando Hong Kong, e per questo hanno scelto di allontanarsi sempre più da Pechino».
Cosa possono fare, concretamente, l’Occidente e l’Unione europea per suo padre e la sua causa?
«Hong Kong continua a dire al mondo di avere libertà, stato di diritto e stampa libera. Non è più vero. Ma lo dice perché a molti piace questa immagine: perché dà fiducia a chi vuole fare affari lì. I governi occidentali possono dire chiaramente a Hong Kong: se non liberate quest’uomo, che è detenuto solo per aver difeso ciò che è giusto, non potremo più fingere che abbiate quelle libertà. E non potremo trattarvi come un territorio indipendente dalla Cina. È un’occasione per i Paesi europei di mostrare i propri valori, e per Hong Kong di tornare a essere una città che rispetta la legge e un sistema basato sul diritto».
Anche i suoi fratelli sono finiti in prigione per lo stesso motivo.
«Sono stati arrestati, ma non incriminati. Poi rilasciati. Quindi non possono fare quello che faccio io. Sono ancora a Hong Kong. Non comunico con loro per non metterli ulteriormente in pericolo. Ma per me è un privilegio poter difendere mio padre. Se penso alla storia di Hong Kong, sono grato che una persona come lui esista: qualcuno disposto a dare tutto per difendere la sua città. Certo, l’altra parte di me vorrebbe semplicemente avere un padre a casa, ma resto incredibilmente orgoglioso di lui».



