La scorsa settimana, nel silenzio mediatico più assoluto, è avvenuto qualcosa di inedito nelle relazioni tra Stati Uniti e Venezuela: per la prima volta, forze americane hanno colpito un obiettivo sul suolo venezuelano. Secondo fonti governative statunitensi, la CIA ha condotto un attacco con droni contro un'installazione portuale remota sulla costa del paese caraibico, ritenuta utilizzata dalla banda criminale Tren de Aragua per stoccare e spedire droga.

L'operazione, condotta in gran segreto, non è stata resa pubblica dall'amministrazione Trump. È stato lo stesso presidente a rivelarla quasi per caso, durante un'intervista radiofonica del 26 dicembre, parlando di una "grande struttura dove arrivano le navi" colpita "due notti prima". Solo lunedì, incalzato dai giornalisti mentre incontrava il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, Trump ha confermato: «C'è stata una forte esplosione nell'area del molo dove caricano le barche con la droga». Ma ha rifiutato di fornire dettagli su chi avesse condotto l'attacco o dove si trovasse esattamente l'obiettivo.

Secondo le ricostruzioni di CNN, basate su fonti dell'intelligence americana, nessuno si trovava nella struttura al momento dell'attacco, quindi non ci sarebbero state vittime. Tuttavia, l'episodio segna una svolta significativa: dopo mesi di bombardamenti contro presunte imbarcazioni di narcotrafficanti in acque internazionali – che hanno causato oltre 107 morti dal settembre scorso – gli Stati Uniti hanno ora spostato le operazioni sul territorio venezuelano.

Una campagna militare controversa

Da settembre, l'amministrazione Trump ha intensificato quella che definisce una "campagna antidroga" nei Caraibi e nel Pacifico orientale. Più di 30 imbarcazioni sono state distrutte, centinaia di persone sono state uccise, e Washington ha schierato nella regione oltre 15.000 soldati, navi da guerra e droni. Gli obiettivi ufficiali variano: ora si parla di lotta al narcotraffico, ora di pressione per rovesciare il regime di Nicolás Maduro.

Quest'ultima ipotesi sembra sempre più plausibile. Come ha dichiarato lo stesso Trump, «i giorni di Maduro sono contati», anche se ha escluso una guerra imminente. Susie Wiles, capo di gabinetto della Casa Bianca, ha ammesso in un'intervista che gli attacchi alle imbarcazioni mirano a far "cedere" Maduro. Del resto, secondo le stime dell'ONU, meno del 5% della cocaina che arriva negli Stati Uniti proviene dal Venezuela, rendendo difficile credere che il narcotraffico sia l'unico motivo di questa massiccia mobilitazione militare.

Al centro degli interessi americani c'è il petrolio venezuelano. Il paese possiede le maggiori riserve petrolifere al mondo, ma è schiacciato da sanzioni economiche sempre più pesanti. Nelle ultime settimane, gli Stati Uniti hanno sequestrato tre petroliere venezuelane e imposto un blocco navale completo alle navi sanzionate. Il messaggio è chiaro: Washington vuole strangolare economicamente Caracas, colpire i suoi rapporti con Cina e Iran, e spingere per un cambio di regime.

Il Nobel per la Pace alla resistenza venezuelana

In questo scenario di crescente tensione militare, il 10 ottobre scorso il Comitato norvegese ha assegnato il Premio Nobel per la Pace 2025 a María Corina Machado, leader dell'opposizione venezuelana. La motivazione ufficiale riconosce «il suo instancabile lavoro nella promozione dei diritti democratici del popolo venezuelano e per una transizione giusta e pacifica dalla dittatura alla democrazia».

Machado, 58 anni, ingegnere industriale e attivista, rappresenta l'ala più intransigente dell'opposizione al governo Maduro. Fondatrice del partito Vente Venezuela, è stata candidata alle presidenziali del 2024, ma il regime le ha impedito di partecipare alle elezioni. Ha quindi sostenuto Edmundo González Urrutia, e l'opposizione ha organizzato una capillare rete di osservatori elettorali – centinaia di migliaia di volontari – per documentare i risultati prima che potessero essere falsificati. Nonostante le evidenze di una vittoria dell'opposizione, Maduro si è proclamato vincitore.

Da allora, Machado vive nascosta, braccata dalle autorità. Il Comitato Nobel ha sottolineato che "nonostante le gravi minacce alla sua vita, è rimasta nel paese, una scelta che ha ispirato milioni di persone". Il 10 dicembre, a Oslo, non ha potuto ritirare personalmente il premio: a riceverlo è stata sua figlia Ana Corina Sosa, che ha letto un discorso scritto dalla madre in cui si afferma che il Venezuela mostra al mondo che "dobbiamo essere disposti a lottare per la libertà".

L'assegnazione del Nobel a Machado è stata salutata con favore in Occidente, ma ha anche suscitato polemiche. La leader venezuelana ha infatti più volte invocato interventi esterni contro il suo paese e manifestato sostegno alla strategia aggressiva di Trump. Nel suo discorso di Oslo, pur senza citare esplicitamente le operazioni americane, ha menzionato «i leader di tutto il mondo che si sono uniti a noi e hanno difeso la nostra causa». Alcuni osservatori interpretano il premio come un segnale politico dell'Occidente verso Caracas e, indirettamente, un avallo alla pressione militare di Washington.

Alberto Trentini: il secondo Natale in carcere

Mentre si combatte questa partita geopolitica, un italiano continua a pagare un prezzo altissimo. Alberto Trentini, 46 anni, cooperante veneziano di Humanity & Inclusion, è detenuto dal 15 novembre 2024 nel carcere di El Rodeo I a Caracas. Sono trascorsi 405 giorni e ancora non gli è stata formalizzata alcuna accusa. Questo Natale è stato il secondo che ha trascorso lontano dalla sua famiglia, rinchiuso in una cella di due metri per due, in condizioni igieniche difficili, dimagrito e privato di tutto: della musica, dei libri, delle passeggiate, dell'affetto dei suoi cari.

«Non so rassegnarmi a un secondo Natale senza mio figlio. Io lo aspetto», ha dichiarato la madre Armanda Colusso in un'intervista a Chora News. «13 mesi senza Alberto sono stati un calvario, un'agonia interminabile". La signora Colusso ha scritto due lettere al presidente Maduro, chiedendogli di «concedere la libertà ad Alberto e permettergli di tornare a casa da chi lo ama». Le sue parole sono state consegnate da Alberto López, ambasciatore ONU che ha tentato una mediazione a Caracas, ma senza risultati.

Esposto lo striscione al termine della conferenza ‘Libertà per Alberto subito’ per chiedere il rilascio del figlio Alberto Trentini detenuto in Venezuela da un anno presso palazzo Marino a Milano, 15 novembre 2025. ANSA/MOURAD BALTI TOUATI
Esposto lo striscione al termine della conferenza ‘Libertà per Alberto subito’ per chiedere il rilascio del figlio Alberto Trentini detenuto in Venezuela da un anno presso palazzo Marino a Milano, 15 novembre 2025. ANSA/MOURAD BALTI TOUATI
Esposto lo striscione al termine della conferenza ‘Libertà per Alberto subito’ per chiedere il rilascio del figlio Alberto Trentini detenuto in Venezuela da un anno presso palazzo Marino a Milano, 15 novembre 2025. ANSA/MOURAD BALTI TOUATI (ANSA)

Alberto è stato fermato a un posto di blocco mentre viaggiava da Caracas verso Guasdualito, nel sudovest del Venezuela, per una missione umanitaria. Per due mesi la famiglia non ha avuto notizie di lui. In questi 13 mesi, ha potuto parlare al telefono con i genitori solo tre volte. A settembre, l'ambasciatore italiano Giovanni Umberto De Vito lo ha visitato in carcere, trovandolo "in condizioni tutto sommato buone", anche se evidentemente provato.

Il caso di Alberto Trentini si inserisce in una strategia più ampia del regime venezuelano: secondo l'associazione Foro Penal, nelle carceri del paese ci sono almeno 853 prigionieri politici, di cui 81 stranieri. Molti vengono trattenuti senza accuse come merce di scambio con i rispettivi governi. Negli ultimi mesi, Svizzera, Francia, Stati Uniti e Colombia sono riusciti a ottenere il rilascio dei propri cittadini. L'Italia, invece, non ha ancora ottenuto risultati.

Il 24 dicembre, Maduro ha liberato 99 detenuti arrestati dopo le contestate elezioni del 2024. Alberto non era tra loro. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha telefonato alla signora Colusso per esprimere vicinanza e invitare la famiglia «a non perdere la speranza». Ma la madre di Alberto ha più volte denunciato l'azione "poco incisiva" del governo italiano, lamentando che altri paesi hanno agito con maggiore determinazione.

Le radici dell'attuale escalation affondano nella storia recente. Il Venezuela di Hugo Chávez prima, e di Nicolás Maduro poi, ha costruito la sua politica estera su un'ideologia antimperialista e multipolare, stringendo alleanze con Cina, Russia e Iran. Per Washington, Caracas rappresenta una minaccia all'egemonia americana nell'emisfero occidentale e un simbolo della sfida del "Sud globale" al "Nord del mondo".

Donald Trump, che durante il primo mandato aveva già tentato di rovesciare Maduro (sostenendo Juan Guaidó come "presidente ad interim"), nel secondo mandato ha adottato una strategia più aggressiva. Obiettivi dichiarati: fermare il narcotraffico, bloccare l'immigrazione venezuelana (quasi nove milioni di persone hanno lasciato il paese negli ultimi dieci anni), riaffermare il controllo americano sulla regione. Obiettivi reali: mettere le mani sul petrolio venezuelano e indebolire le alleanze di Caracas con potenze rivali.

Il sequestro delle petroliere, il blocco navale, gli attacchi alle imbarcazioni e ora il raid sul territorio venezuelano mostrano una strategia di pressione crescente. Il rischio è che si arrivi a un punto di non ritorno. Gli esperti escludono un'invasione su larga scala – servirebbero almeno 30.000 soldati, mentre nei Caraibi ne sono schierati tra 8.000 e 10.000 – ma l'imprevedibilità di Trump e la tenacia di Maduro rendono ogni scenario possibile.

Quale pace?

Questa vicenda solleva interrogativi profondi. Mentre a Oslo si premia una leader per la sua "lotta pacifica" alla dittatura, nei Caraibi si conducono operazioni militari che hanno già causato oltre cento morti, senza prove concrete che le vittime fossero effettivamente narcotrafficanti. Mentre si invoca la democrazia e i diritti umani, un cooperante italiano rimane in carcere senza accuse da oltre un anno, vittima innocente di un gioco geopolitico più grande di lui.

Attualità

E il Venezuela piomba nel caos

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La pace, ci ricorda il Vangelo, non è semplicemente assenza di guerra. È giustizia, è rispetto della dignità umana, è la ricerca del bene comune. L'attacco americano in Venezuela, per quanto condotto in segreto e giustificato con la lotta alla droga, apre una nuova fase di escalation in una regione già segnata da povertà, migrazione e violenza. E intanto, Alberto Trentini attende nella sua cella che qualcuno si ricordi di lui.

La madre Armanda ha detto: "Immagino che al mattino, quando inizia la giornata, Alberto penserà che il suo paese lo ha abbandonato". È questo il prezzo umano delle tensioni internazionali: persone reali, con nomi e volti, che pagano per strategie che non hanno scelto. La speranza è che la diplomazia, il dialogo e il rispetto del diritto internazionale prevalgano sulla logica della forza. E che Alberto possa presto tornare a casa, a Venezia, dalla sua famiglia che non ha mai smesso di aspettarlo.