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Erano l’icona dell’Italia leggera. La morte delle gemelle Kessler per suicidio assistito ha provocato smarrimento e dolore. «La reazione è stata di profonda pietà e sgomento» commenta monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Fondazione Età Grande. «Il fatto che fossero così note, che fossero entrate nelle case di tanti, mi ha fatto come acuire il dolore e aumentare la compassione per due persone conosciute da milioni di persone di almeno due generazioni. Dolore e dispiacere per una morte com’essa è avvenuta, anche perché la morte non è mai un’amica. Arriva come un ladro normalmente, ma se la si desidera, è un problema ancor più serio. Potrei anche dire che sento il dispiacere di non essere stato accanto per capire e comprendere, per aiutare a vivere più che a morire, per aiutare a comprendere il dono che siamo ognuno di noi anche per quelli che ci stanno accanto. E, mi verrebbe da dire in questo caso, anche per i tanti lontani. Siamo tutti molto dispiaciuti. Sì, abbiamo bisogno degli altri, anche di loro».
Nella morte delle Kessler colpisce anche il legame speciale della gemellanza.
«Io ho due fratelli gemelli. Hanno quattro anni meno di me e ne conosco un po’ i risvolti che, a volte, sono complementari, altre volte divergenti. È una dimensione della vita che crea delle modalità di particolari di rapporto che non sempre sono così includenti come in questo caso. E’ importante sottolineare, però, che c'è una dimensione della vita che sta oltre i legami “di sangue”, che è quella elettiva degli affetti. Una fraternità di adozione che può essere altrettanto forte che però non annulla le identità, semmai valorizza le diversità come valore che arricchisce l’unione. La dimensione affettiva deve presiedere quella di sangue. E sono comunque convinto che i legami di sangue debbano diventare una scelta di amore che non annulla ma che fonde».
Una scelta di vita e non di morte.
« Caino e Abele erano fratelli di sangue ma il primo non la scelse come legame di vita, sino ad eliminare il fratello. La fraternità, questo legame di sangue, deve diventare una scelta di vita, una scelta per crescere nell’amore. Insomma, l’unione tra i gemelli non deve annullare la loro diversità – sono due persone diverse – semmai deve aiutare a valorizzare la dimensione unitiva che conserva comunque le diversità. Diviene così un esempio della convivenza umana. La dimensione unitiva della “natura” va resa fruttuosa perché diventi una scelta culturale, esistenziale, persino, politica. Si tratta di apprendere a convivere senza annullarsi. La loro unità-diversità è stata straordinaria. Sarebbe stato bello se fosse continuata ».
Qual è il pericolo?
«Non vorrei che qualcuno trasformasse questa scelta - che è un problema molto serio - in una sorta di magistero, di insegnamento di vita. Credo che dobbiamo fare tutti un esame di coscienza se siamo stati sufficientemente vicini ad esse e non solo, anche a tanti altri che la solitudine intristisce sino alla tentazione di “andare via”, di togliersi la vita. Sono convinto che ogni gesto di suicidio è una domanda d’amore inevasa »
Preoccupa questa diffusa tendenza a decidere della propria vita e della propria morte.
«A mio avviso è una dimensione tristemente prometeica. Non siamo padroni della nostra vita. Essa è un dono che ci è stato fatto perché possiamo spenderlo per tutti, perché possiamo farla fruttare per tutti. Nessuno è auto-nato. L’ombelico ci ricorda che siamo comunque legati agli altri. Nessuno è slegato dagli altri. La vita la riceviamo in dono. Ovviamente il dono è nostro. Ma non ci viene data perché la buttiamo via».
E poi c’è il tema della legge. Le Kessler hanno potuto fare quel che hanno fatto perché erano in Germania.
«La legislazione tedesca a me pare rabbrividente anche perché assistere a due che si suicidano a me farebbe pensare a una mancanza di soccorso. Come è possibile pensare di aiutare la morte a fare il suo sporco lavoro? Che lo facesse lei. Ovviamente, neppure posso essere padrone di impedirle nel suo corso. Voler bloccare la morte a ogni costo è anch’esso uno sciocco prometeismo. Mi fa rabbrividire la disposizione tedesca”.
Disposizione di nuovo intervenuta in un vuoto legislativo. Cosa si augura per l’Italia?
«La situazione legislativa nel nostro Paese mi fa pensare che sia opportuno che il Parlamento italiano a questo punto – dopo l’intervento della Corte – approvi una legge che sia il più largamente possibile condivisa. In un campo come questo sarebbe stolto prendere decisioni a maggioranza. Ribadisco, comunque, che io (e tanti altri, anche non credenti) non siamo d'accordo sul suicidio assistito e, ancor meno, sull'eutanasia».
E poi, non smettiamo di ripeterlo, vanno implementate le cure palliative.
«Implementarle è di una urgenza indilazionabile. Ed è da ribadire che le cure palliative non sono per il “fine vita”. Le cure palliative sono un accompagnamento nel tempo prima della morte perché nessuno sia lasciato solo, nessuno sia costretto a sopportare dolori crudeli, a nessuno sia rifiutata la cura anche quando non si può guarire. Purtroppo, oggi, nel 70% del Paese non ci sono luoghi adeguati per le cure palliative».
C'è una campagna molto efficace in questi giorni di Vidas che dice: “Cure palliative. Cure, non un palliativo”.
«È così. Personalmente sono intervenuto sin dal 2016 con congressi internazionali sulla promozione delle cure palliative con la Pontificia accademia per la vita. Bisogna continuare».



