Ora è chiaro perché Emma Dante, nella conferenza stampa di presentazione del suo nuovo spettacolo L’angelo del focolare, in scena dal 11 al 30 novembre al Teatro Grassi, incoraggiava il pubblico a ridere. Sì, perché quando si entra in sala per uno spettacolo che tocca il femminicidio si tende a irrigidirsi, come a un rito funebre. E invece Dante, come suo solito, ci scomoda: ci fa ridere con e della famiglia siciliana che ci presenta in scena così, rozzamente, senza troppi artifici scenici.

Una suocera che parla dialetto fitto fitto, un figlio indolente che passa le giornate a letto, un marito che gli impartisce lezioni di virilità in mutande, con un chupa chups tra i denti. E una moglie che cerca disperatamente di tenere insieme tutto. Ridiamo perché le dinamiche che si svolgono nel privato sono riconoscibili, comiche. Ed è qui che entra a gamba tesa il teatro: in quei gesti che si ripetono ogni giorno si annida una ferita profonda, che Giuditta Perriera porta in scena fin dal suo ingresso, con la fronte già sanguinante.

Non è quindi solo l’ennesimo eccesso di violenza del marito a ucciderla, ma il cumulo di mancanze di rispetto, di invisibilità, di silenzi imposti da tutti. «Ce ne volle per farla morire. È molto più difficile uccidere un fantasma che una realtà» scriveva Virginia Woolf a proposito dell’angelo del focolare. La donna in scena continua ad alzarsi non per liberarsi, ma perché è costretta a incarnare quel ruolo anche oltre la morte simbolica. E allora la risata, alla fine, non consola: tradisce. Ci rivela quanto facilmente possiamo ridere di ciò che contribuisce a far morire una donna