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Il 28 ottobre ricorre il 60° anniversario della dichiarazione Nostra Aetate, documento del Vaticano II sulle relazioni della Chiesa cattolica con le religioni non cristiane. Da allora, tuttavia, resta vivo il medesimo quesito: come conciliare la recita del Credo che implica una missione ben precisa e l’apertura rispettosa alle altre confessioni? Lo abbiamo rivolto a monsignor Flavio Pace, segretario del Dicastero per l’unità dei cristiani, incaricato anche del dialogo con gli ebrei.
«Inizialmente», spiega l'arcivescovo, «il progetto di Giovanni XXIII, dopo l’incontro con Jules Isaac, doveva riguardare solo i rapporti tra cristianesimo ed ebraismo, ma in seguito fu esteso alle altre religioni non cristiane. L’anniversario della Nostra Aetate deve quindi essere celebrato innanzitutto in rapporto alle relazioni ebraico-cristiane, molto difficili in questo momento storico a causa della guerra in Terra Santa. È proprio quando è difficile capirsi che dobbiamo cercare di dialogare ancora di più. Inoltre, è necessario collocare la Nostra Aetate nel contesto del Concilio e ricordare che tale dichiarazione dell’ottobre 1965 fu seguita, nel mese di novembre, dalla costituzione dogmatica Dei Verbum sulla Divina Rivelazione, solennemente promulgata da Paolo VI. Questa costituzione dogmatica mostra che il Dio invisibile nel suo grande amore si rivolge a noi uomini come a degli amici, inserendo così la Rivelazione in un processo di dialogo personale e di relazione. La missione si vive nell’ambito di una condivisione dei doni. Per quanto riguarda l’ebraismo in modo ancora più grande riconosciamo le nostre radici, poiché “i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” citando san Paolo nella Lettera ai Romani (11,29) e il documento della Commissione per i Rapporti Religiosi con l’ebraismo edito nel 2015 in occasione del cinquantesimo anniversario di Nostra Aetate».
Con il Concilio e la dichiarazione Nostra Aetate, la Chiesa cattolica fece autocritica riguardo alle sue difficili relazioni passate con il popolo ebraico. Ci si può aspettare un analogo rimettersi in discussione da parte delle autorità rabbiniche?
«Sappiamo che alcuni giovani suprematisti ebrei si comportano male con i pellegrini cristiani in Terra Santa e le loro azioni anticristiane sono documentate in particolare dal rapporto annuale del Rossing Center, un’ONG israeliana che si definisce interconfessionale. Il mondo ebraico mondiale non è organizzato in modo gerarchico come la Chiesa cattolica e non esiste un’unica autorità con cui dialogare su questi temi, che riguardano in particolare l’educazione. Pertanto, sono i legami interpersonali che contano ed è più urgente che mai dialogare in reciproca franchezza con i rabbini che conosciamo affinché si sentano interpellati non solo dagli episodi appena citati, ma da quelle che potrebbero essere le cause a livello di formazione. Abbiamo il dovere di coltivare la dimensione spirituale nei nostri rapporti, cercando di rinnovare l’educazione delle persone, giovani e adulti, in una dinamica di rispetto reciproco. La Chiesa cattolica non può rimanere sola a fare il suo mea culpa e anche i rappresentanti delle altre religioni devono assumersi le loro responsabilità di fronte alla storia. E soprattutto lo sguardo non può essere sempre ancorato al passato ma deve essere rivolto ad un futuro diverso, soprattutto quando la storia sembra soltanto un pozzo avvelenato».



