New York
Tra le conseguenze e gli strascichi che lascerà la questione Israelo-palestinese in questi giorni oggetto della sessantaseiesima Assemblea generale dell'Onu, vi sarà anche quella dell’ennesima dimostrazione di scarsa credibilità politica della Unione Europea. L’intervento in plenaria del Presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy, che ha giustamente sottolineato come fosse il primo intervento alle Nazioni Unite di un “Presidente a tempo pieno” della Ue, ha tentato con scarsi risultati di mascherare la cruda verità sulla vicenda del riconoscimento dello Stato palestinese: l’Europa a fronte di una decisione importante di politica internazionale ancora una volta si presenta disunita.
L’evidenza è stata messa in risalto dagli interventi che prima di lui i Capi di Stato e di Governo membri dell’Unione hanno pronunciato di fronte all’Assemblea Onu. A parte infatti, l’unica convinzione condivisa circa la necessità di trovare una via di uscita dallo stallo negoziale che caratterizza le relazioni tra Tel Aviv e Gerusalemme e dall’impaludamento della comunità internazionale in attesa di una qualche proposta da parte del “Quartetto” – i quattro leader di Onu, Usa, Ue e Russia incaricati di mediare il conflitto in essere ed individuare la soluzione percorribile – gli Stati membri della Ue si sono schierati in favore di ipotesi diverse e metodi opposti da seguire. A fronte del riconoscimento richiesto da Abu Mazen per uno Stato autonomo palestinese, sono tre le soluzioni sottoposte alla valutazione della comunità internazionale e sulle quali nelle prossime ore l’Assemblea generale dovrà pronunciarsi. La prima di esse è conosciuta come la “Vatican option”, ovvero la possibilità di concedere alla Palestina uno status di “Osservatore permanente” come optato per la Santa Sede, che consentirebbe all’Autorità palestinese di partecipare alle decisioni delle agenzie Onu e soprattutto di poter ricorrere alla Corte Internazionale dell’Aja per denunciare crimini e soprusi perpetrati da un lato da Israele e dall’altro da Hezbollah. Per questa ipotesi si sono chiaramente schierati tra gli altri, la Francia e l’Italia.
La seconda, corrisponde alla richiesta che i palestinesi hanno inusualmente avanzato all’Assemblea e non all’organo preposto costituito dal Consiglio di sicurezza, per sfruttare la felice coincidenza di due “grandi alleati”, Qatar e Libano, che oggi rivestono rispettivamente la funzione di Presidente dell’Assemblea generale e di quella del Consiglio di sicurezza. Essa consiste nella ferma e risoluta applicazione della Risoluzione Onu del 1967 che prevedeva la costituzione di due Stati sovrani definendone anche i confini territoriali, da allora ripetutamente violati dai coloni israeliani. Governi come Svezia, Portogallo, Belgio e Spagna non fanno mistero della loro predilezione di questa ipotesi, tanto da preannunciare un voto in linea con gli Stati arabi che, ovviamente, appoggiano la richiesta di Abu Mazen.
Infine, sostenuta dagli Usa e dallo stesso Ban Ki Moon, resta la terza via che prevede il ritorno al tavolo dei negoziati per trovare un “compromesso” tra le richieste di Israele e quelle dei palestinese, senza il quale nessuna decisione in sede Onu sarebbe ammissibile. A questa ultima ipotesi ha aderito David Cameron, premier inglese, esplicitando la sua posizione con un accorato intervento quest’oggi di fronte all’Assemblea dei 193 Stati membri Onu. Se a tutto ciò vogliamo aggiungere che le Nazioni Unite celebrano anche il decennale della Dichiarazione siglata a Durban nel 2001 per un impegno della comunità internazionale contro il razzismo, la discriminazione e la xenofobia, cerimonia che il Governo italiano ha deciso di disertare proprio in virtù dei riferimenti in essa contenuti ai comportamenti e delle politiche di Israele nei confronti del popolo palestinese, risulta facile immaginare la fatica e l’imbarazzo del Presidente Ue Van Rompuy nel presentarsi a “nome dei 27 Paesi della UE”.
Il peso economico della Unione europea, che registra un Pil complessivo di soli 15 punti percentuali inferiore a quello USA, continua ad essere sminuito dalla sua reiterata assenza politica. Le conseguenze di una simile debolezza politica, fatto salvi repentini ravvedimenti dei nostri politici, sullo scacchiere internazionale sono evidenziate dalla sua evanescenza nei percorsi decisionali ancora affidati ad altri raggruppamenti o non ancora ricevuti in delega dai propri membri; sul fronte interno, sebbene più subdole e devastanti, le stiamo iniziando a vedere nell’incapacità di risolvere la crisi economica e, temo, le constateremo in futuro ed in misura maggiore sul piano sociale.
Tra le conseguenze e gli strascichi che lascerà la questione Israelo-palestinese in questi giorni oggetto della sessantaseiesima Assemblea generale dell'Onu, vi sarà anche quella dell’ennesima dimostrazione di scarsa credibilità politica della Unione Europea. L’intervento in plenaria del Presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy, che ha giustamente sottolineato come fosse il primo intervento alle Nazioni Unite di un “Presidente a tempo pieno” della Ue, ha tentato con scarsi risultati di mascherare la cruda verità sulla vicenda del riconoscimento dello Stato palestinese: l’Europa a fronte di una decisione importante di politica internazionale ancora una volta si presenta disunita.
L’evidenza è stata messa in risalto dagli interventi che prima di lui i Capi di Stato e di Governo membri dell’Unione hanno pronunciato di fronte all’Assemblea Onu. A parte infatti, l’unica convinzione condivisa circa la necessità di trovare una via di uscita dallo stallo negoziale che caratterizza le relazioni tra Tel Aviv e Gerusalemme e dall’impaludamento della comunità internazionale in attesa di una qualche proposta da parte del “Quartetto” – i quattro leader di Onu, Usa, Ue e Russia incaricati di mediare il conflitto in essere ed individuare la soluzione percorribile – gli Stati membri della Ue si sono schierati in favore di ipotesi diverse e metodi opposti da seguire. A fronte del riconoscimento richiesto da Abu Mazen per uno Stato autonomo palestinese, sono tre le soluzioni sottoposte alla valutazione della comunità internazionale e sulle quali nelle prossime ore l’Assemblea generale dovrà pronunciarsi. La prima di esse è conosciuta come la “Vatican option”, ovvero la possibilità di concedere alla Palestina uno status di “Osservatore permanente” come optato per la Santa Sede, che consentirebbe all’Autorità palestinese di partecipare alle decisioni delle agenzie Onu e soprattutto di poter ricorrere alla Corte Internazionale dell’Aja per denunciare crimini e soprusi perpetrati da un lato da Israele e dall’altro da Hezbollah. Per questa ipotesi si sono chiaramente schierati tra gli altri, la Francia e l’Italia.
La seconda, corrisponde alla richiesta che i palestinesi hanno inusualmente avanzato all’Assemblea e non all’organo preposto costituito dal Consiglio di sicurezza, per sfruttare la felice coincidenza di due “grandi alleati”, Qatar e Libano, che oggi rivestono rispettivamente la funzione di Presidente dell’Assemblea generale e di quella del Consiglio di sicurezza. Essa consiste nella ferma e risoluta applicazione della Risoluzione Onu del 1967 che prevedeva la costituzione di due Stati sovrani definendone anche i confini territoriali, da allora ripetutamente violati dai coloni israeliani. Governi come Svezia, Portogallo, Belgio e Spagna non fanno mistero della loro predilezione di questa ipotesi, tanto da preannunciare un voto in linea con gli Stati arabi che, ovviamente, appoggiano la richiesta di Abu Mazen.
Infine, sostenuta dagli Usa e dallo stesso Ban Ki Moon, resta la terza via che prevede il ritorno al tavolo dei negoziati per trovare un “compromesso” tra le richieste di Israele e quelle dei palestinese, senza il quale nessuna decisione in sede Onu sarebbe ammissibile. A questa ultima ipotesi ha aderito David Cameron, premier inglese, esplicitando la sua posizione con un accorato intervento quest’oggi di fronte all’Assemblea dei 193 Stati membri Onu. Se a tutto ciò vogliamo aggiungere che le Nazioni Unite celebrano anche il decennale della Dichiarazione siglata a Durban nel 2001 per un impegno della comunità internazionale contro il razzismo, la discriminazione e la xenofobia, cerimonia che il Governo italiano ha deciso di disertare proprio in virtù dei riferimenti in essa contenuti ai comportamenti e delle politiche di Israele nei confronti del popolo palestinese, risulta facile immaginare la fatica e l’imbarazzo del Presidente Ue Van Rompuy nel presentarsi a “nome dei 27 Paesi della UE”.
Il peso economico della Unione europea, che registra un Pil complessivo di soli 15 punti percentuali inferiore a quello USA, continua ad essere sminuito dalla sua reiterata assenza politica. Le conseguenze di una simile debolezza politica, fatto salvi repentini ravvedimenti dei nostri politici, sullo scacchiere internazionale sono evidenziate dalla sua evanescenza nei percorsi decisionali ancora affidati ad altri raggruppamenti o non ancora ricevuti in delega dai propri membri; sul fronte interno, sebbene più subdole e devastanti, le stiamo iniziando a vedere nell’incapacità di risolvere la crisi economica e, temo, le constateremo in futuro ed in misura maggiore sul piano sociale.


