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ANSA/FABIO FRUSTACI
A differenza di quelle calcistiche, le partite politiche si giocano anche cambiando i regolamenti. Dopo le elezioni regionali in Campania, Puglia e Veneto, nel Centrodestra è maturata una consapevolezza chiara: il sistema misto non è più un vantaggio. E mentre a Palazzo Chigi si ragiona sul giocare la carta del ritorno al proporzionale puro, conviene spiegare una volta per tutte che cosa lo distingue dall’uninominale maggioritario e perché una coalizione abbastanza compatta, soprattutto in pubblico, come quella di Meloni, Salvini e Tajani, avrebbe tutto da guadagnare da un cambio di rotta.
L’uninominale maggioritario è un metodo elettorale. Significa che il territorio viene diviso in collegi e in ciascun collegio si elegge un solo deputato o senatore (uninominale appunto): chi arriva primo conquista il seggio, anche se si ferma al 30 o al 35% (ecco il significato di maggioritario). Gli altri voti non servono a nulla, sono materiale buono al massimo per i sondaggisti. È un meccanismo semplice e spietato, perché costringe i partiti a coalizzarsi su un solo candidato per non disperdere voti e rischiare di perdere territori anche dove hanno una presenza reale.
Il proporzionale puro ribalta questa impostazione. Ogni voto vale allo stesso modo in ogni angolo del Paese e i seggi vengono distribuiti con un criterio aritmetico: tante preferenze, tante poltrone. Senza premi, senza dover strappare collegi a colpi di candidati possibilmente mediatici. È un sistema che fotografa perfettamente i rapporti di forza reali e, proprio per questo, oggi fa gola al Centrodestra.
Perché? Per una ragione tanto prosaica quanto decisiva: la coalizione conservatrice è un blocco compatto, cementato da anni di pratica comune. Non è un’alleanza dell’ultima ora, né un matrimonio di interesse elettorale. È una macchina che funziona e che, in un proporzionale, vede i voti trasformarsi in seggi con una linearità che nessun maggioritario potrebbe garantire. Inoltre, gli alleati minori – Forza Italia in primis – in un sistema del genere non rischiano di rimanere schiacciati dal partito più forte, come accade nei collegi uninominali, dove il candidato vero lo decide in anticipo chi guida la coalizione.
Il Centrosinistra, al contrario, è forte solo quando riesce a compattarsi in extremis. Il cosiddetto “campo largo” può strappare collegi decisivi proprio grazie alla logica maggioritaria: sommando voti diversi, si porta a casa territori che altrimenti perderebbe. Ed è precisamente questo l’effetto che il centrodestra vorrebbe neutralizzare. Nel proporzionale non conta vincere in un collegio simbolico, conta il totale. E lì la destra ha dimostrato, anche nelle ultime regionali, di avere un radicamento più omogeneo e capillare. Dopo le elezioni proporzionali le coalizioni di Centrosinistra sono spesso un treno di variegati vagoni che a volta fanno cadere la maggioranza: basta un Turigliatto e salta il governo, come avvenne con il secondo governo Prodi nel 2007 per opera del senatore di Rifondazione comunista, professatosi “trotskista” aderente alla Quarta Internazionale che votò contro una risoluzione di politica estera.
C’è poi un altro elemento, più interno e meno dichiarato: un sistema proporzionale ridimensiona il potere del leader che controlla le candidature nei collegi. In un maggioritario la scelta del nome giusto in un territorio vale quanto un programma; nel proporzionale torna centrale la forza effettiva dei partiti, riducendo tensioni e gelosie interne.
Attualmente il sistema elettorale delle politiche (che si svolgeranno nel 2027, se non cade prima la legislatura) si basa sul cosiddetto “Rosatellum”, che prevede un 25 % dei seggi con l’uninomiunale e il resto proporzionale. Meloni sta seriamente pensando a una riforma che faccia sparire questo 255 per partire più forti ai blocchi di partenza, dopo l’esperienza della sconfitta in Campania e In Puglia. In definitiva, il Centrodestra spinge per il ritorno al proporzionale puro perché è un porto più sicuro: riduce i rischi, valorizza la compattezza della coalizione, dà voce agli alleati e toglie al Centrosinistra la leva dei collegi uninominali. È un ritorno al passato, certo, ma dettato da una lucidissima lettura del futuro da parte della premier Meloni: chi governa oggi vuole arrivare domani con qualche incognita in meno e con qualche garanzia in più.





