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ANSA/ANGELO CARCONI
All’armi! All’armi! Ci siamo, ma forse sarebbe il caso di dire: ci risiamo. Si torna a parlare di naja. Il ministro della Difesa Guido Crosetto ha presentato un disegno di legge con l’intento di reintrodurre in Italia un servizio di leva, anche se non obbligatoria: una leva su base volontaria che permetta di reclutare circa diecimila riservisti, «pronti a essere mobilitati in caso di crisi, emergenze, operazioni di supporto logistico o protezione civile». Di per sé si tratterebbe di un semplice rinforzo del nostro contingente, in un numero tutto sommato ridotto, anche se non si tratta di professionisti ma solo di un’esperienza militare di uno o più anni per poi tornare alla vita civile. Solo che la sola parola “leva”, in un Paese che ha mandato generazioni a imbracciare un fucile, non è neutra. Fa scattare campanelli, memorie, paure. Perché tutti l’hanno capito: il passo volontario oggi può diventare l’obbligo domani. E non consola il fatto che provvedimenti simili siano comparsi anche in Germania e in Francia. Quando i cannoni tornano a parlare nell’Est d’Europa, i governi dell’Ovest si affrettano a lucidare gli elmetti.


L’assenza di una difesa europea
Perché potrebbe essere solo un primo provvedimento, per vedere l’effetto che fa, tipico di una certa strategia politica dei piccoli passi, magari l’inizio di una leva obbligatoria, o addirittura di una chiamata generale alle armi, dai 19 ai 45 anni, si dice. Iniziative analoghe ci sono state anche in Germania e in Francia. Del resto c’era da aspettarselo: se l’Unione vara un piano di riarmo da 500 e passa miliardi di euro, prima o poi arriva il momento di arruolare chi deve usare quelle armi. E il fatto che gli Stati membri procedano ognuno per sé, senza coordinarsi nella creazione di un esercito europeo, è ancora più inquietante.
Il capo di Stato maggiore francese Fabien Mandon ha addirittura avvertito i francesi: «Prepariamoci a perdere i nostri figli». Una frase agghiacciante, che ha provocato grandi polemiche Oltralpe, ma che ci ha proiettati in un’altro tempo, come se 80 anni di pace fossero stati solo una parentesi e non l’inizio di una nuova era. Non a caso la notizia ha gettato nello sconforto don Renato Sacco, memoria storica del movimento pacifista, storico membro di Pax Christi. «Poi pensi ai tanti giovani che incontri a scuola, in oratorio, in tante situazioni», ha scritto don Renato, che è un allievo di don Tonino Bello. «Giovani che hanno la vita dentro! Che scoppiano di vita, di sogni. Ma non vogliono far scoppiare la guerra. Che vivono il servizio, ma non quello militare. Sì possiamo dirlo: ma noi adulti non ci facciamo anche un po' schifo? Neanche un po’ di vergogna?».
In ogni caso, avverte don Sacco, «da domani, anzi da stasera, si riprende l’impegno, la denuncia, la disobbedienza civile! Si torna a Barbiana, da don Milani, per “Avere il coraggio di dire ai giovani che l’obbedienza non è più una virtù”». Parole scomode in un Paese che ha sempre fatto finta di essere pacifico, ma ha mandato i suoi ragazzi — generazioni intere — a morire da Tripoli a Stalingrado.
Crosetto non cancella i dubbi. In un Paese dove i giovani scappano all’estero perché non trovano un lavoro decente, quanti accetteranno di infilarsi in una divisa per essere chiamati “in caso di bisogno”? E che tipo di “bisogno”? Protezione civile, certo. Ma anche funzioni operative? Interventi armati? Peacekeeping?La proposta del ministro non richiama certo nostalgie di caserme e camicie grigie, ma solleva un incubo per tutte le madri italiane, risveglia epoche tragiche del passato, come le due guerre mondiali, quando le vite di milioni di uomini e donne vennero spezzate nel fiore degli anni e una domanda profonda: cosa significa oggi essere cittadini in un’Europa che chiede protezione, prontezza e coesione? Davvero si risolvono le cose ritornando ai secoli passati? La storia non ci ha insegnato nulla? Ed è qui che il Paese è di nuovo al bivio: difendersi, certo, ma da cosa? Da chi?





