«In questa vicenda emerge tutta la crisi di un modello “tradizionale”di maschio,  fondato sull’imposizione della forza e sull’evitamento dei sentimenti. Rimane un desiderio di dominio, in cui il piacere del sesso è principalmente il piacere del pos-sesso, che fa sentire potente. Non sottovaluterei poi il peso del gruppo, con la sua forza rassicurante, che amplifica il senso di potenza attraverso la riduzione della responsabilità personale. Attraverso l’”impresa” nefasta dello stupro consumato in gruppo, si realizza una iniziazione alla virilità condivisa pubblicamente sui social, che forniscono una patente riconosciuta di vero macho». Così spiega Fabrizio Fantoni, psicologo e psicoterapeuta, esperto di adolescenza, nonché uno degli esperti che ogni settimana rispondono su Famiglia Cristiana alle domande dei lettori, interpellato sugli stupri commessi da giovanissimi.

Com’è possibile che nessuno in un gruppo provi pietà per una giovane che subisce violenza?

«Il problema del riconoscimento dell’alterità in vicende di questo tipo è prima di tutto accettazione dell’alterità di genere: l’altro è appartenente al genere femminile, verso cui non si prova empatia. La ragazza non è considerata un essere umano di cui ascoltare il grido di dolore: probabilmente lo stesso dolore verrebbe ascoltato se fosse la sorella o la fidanzata di uno di questi, cioè appartenente al clan, e susciterebbe una reazione di difesa in questi maschi. Perché? Perché la donna va difesa solo quando è in gioco l’appartenenza al proprio gruppo, e il possesso che ne deriva: è la mia ragazza, mia sorella ecc..  Chi la offende, offende me e il mio diritto di proprietà. Sembra essere questa la logica che opera in queste situazioni. Se invece è di un altro gruppo, non mi interessa, non è come me: è una cosa, non una persona. In questo riconoscimento e valorizzazione dell’alterità si colloca il problema del consenso, che è prima di tutto rispetto profondo dell’altro. Un rispetto che si dovrebbe esprimere ad esempio nel rinunciare a fare sesso con una ragazza ubriaca non si fa sesso, perché occorre difenderla anche da sé stessa e dal suo mettersi in pericolo».

E cosa si può dire quindi alle ragazze ?

 «Ci sarebbe anche una delicata riflessione da fare, riguardo alle ragazze, che devono difendersi anche preventivamente, evitando situazioni che possono diventare pericolose. Non è questione di dare loro la colpa, ovviamente: la responsabilità diretta ricade su chi commette violenza. Però bisogna anche imparare a essere prudenti ed evitare le situazioni che riducono la propria capacità di controllo e di difesa. Occorre dirlo con chiarezza: l’alcol e le “canne” riducono la capacità di esser padroni delle situazioni, che siano la guida di un’auto, la capacità di sventare un furto o di difendersi  dalle molestie o, come in questo caso, dalla violenza sessuale. Ripeto: senza ovviamente nulla togliere alla responsabilità dei maschi che se ne approfittano».

A chi il compito di educare ragazzi e ragazze?

«Manca un’educazione sessuale: spesso anche per un immotivato timore di “indottrinamento gender”, credo si parli molto meno a scuola di relazioni tra maschi e femmine, sul piano fisico e psicologico. A questo silenzio risponde il grande rumore della pornografia, a portata di smartphone per ogni ragazzino di scuola media, con i suoi messaggi di prevaricazione e di piacere immediato. Mi sembra che spesso anche in famiglia se ne parli poco e in modo generico; alcuni poi minacciano punizioni a parole, senza un solido riferimento morale. Come quell’uomo politico che prima dichiara che se avesse un figlio che manca di rispetto ad una donna gli mollerebbe dei ceffoni, ma quando poi capita che il figlio venga denunciato per abuso, rilascia dichiarazioni negative sulla ragazza…».

In tutto questo che ruolo hanno i professionisti della comunicazione?

«Il loro ruolo spesso si riduce alla ricerca di sensazionalismo, che suscita perlopiù risposte emotive e isteriche (castrazione, pene dure ed esemplari: sarebbe meglio chiedere una pena sicura!). Di qui la pubblicazione delle chat, con lo scopo di suscitare orrore, e non quello di far riflettere sul linguaggio che si utilizza e magari dare informazioni sulle iniziative di prevenzione e sui centri di supporto per le vittime, e anche per i maschi stupratori. A che servono alla fine i titoloni e le foto?

E i social?

«Hanno un ruolo deleterio. Alcuni degli inquisiti continuano a pubblicare, affidano la difesa alle loro dichiarazioni social; sembra però che alcuni profili siano però finti, e facciano dire a questi ragazzi cose che non hanno detto. Inoltre ci sono canali Telegram con centinaia di migliaia di utenti che chiedono lo scambio dei video dello stupro. Bisogna chiedersi come è possibile tutto ciò e chi esercita un controllo, sia nel pubblico che nel privato delle famiglie».