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«Sicuramente si poteva fare di meglio, ma la riforma introduce un principio importante e innovativo: il coinvolgimento di una rappresentanza degli enti territoriali nel procedimento legislativo». Roberto Bin, professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Ferrara, favorevole al progetto di riforma costituzionale, risponde così a chi gli chiede se lo convinca la composizione del nuovo Senato.
Sindaci, consiglieri regionali e, al tempo stesso, senatori: riusciranno a far tutto nelle scadenze previste?
«A parte che non è scritto che i senatori non potranno votare anche da casa, anche ora i ministri si riuniscono una volta al mese a Bruxelles ma non per questo trascurano i ministeri. Il problema sarà costruire, dopo la riforma, una disciplina intelligente del Senato: con una struttura burocratica di base che prepari il lavoro ai senatori».
Si dice che la scrittura delle leggi andrà più spedita. Ma il nostro problema non è l’avere già troppe leggi, troppo spesso modificate?
«Sì, abbiamo una produzione legislativa preoccupante non tanto per il numero quanto per la qualità delle leggi: poco comprensibili e poco stabili. La riforma toglie una delle cause di questo problema: il passaggio tra una Camera e l’altra. Oggi se io governo faccio una proposta, che sarà approvata dopo chissà quanto tempo e quante modifiche, posso preoccuparmi poco di ciò che scrivo oggi, mi concentrerò sugli emendamenti che introdurrò alla fine. Non è un bel modo di legiferare. Una sola Camera, invece, dovrà assumersi la responsabilità delle leggi che produce e che oggi escono spesso figlie di nessuno».
L’articolo 70, sulla funzione legislativa, non sembra semplificato nella nuova Costituzione...
«Nella Costituzione del 1948 era di sole 9 parole ma nascondeva una “non regolamentazione”. Il nuovo testo è più difficile e noioso da leggere, ma sarà più facile da applicare e non darà luogo a contenziosi. Chi dice che il contenzioso aumenterà mi dovrebbe mostrare col dito sul testo quali punti provocherebbero questo effetto».
Si dice che il Governo avrà più peso rispetto ai “contrappesi”. È così?
«Fin qui i contrappesi sono stati concepiti molto all’italiana: l’idea è che essi servano a ostacolare la decisione. Ma non deve essere così: in un Paese democratico il Governo – dopo il dibattito parlamentare (la Camera serve a questo), e dopo aver sentito le autonomie locali (il Senato serve a questo) – è legittimato, anzi è tenuto a governare, cioè a decidere. Se un gruppo di minoranza, magari in commissione, può far saltare la proposta del Governo, quella non è democrazia, è dittatura della minoranza. E poi la riforma incide sui poteri del Governo riducendoli: limita il ricorso ai decreti legge, rende più effettivo il potere di indire referendum, innalza il quorum per l’elezione del presidente della Repubblica, ora eleggibile con la sola maggioranza assoluta che regge il Governo».
La stabilità che la riforma promette ci piacerebbe anche nelle mani di un futuribile Governo sgradito?
«Condivido la critica: la stabilità non è un valore in sé. Il problema è la governabilità, nel senso di capacità del sistema istituzionale di perseguire politiche pubbliche. E non la si ottiene dividendo come ora le competenze tra Stato, Regioni e Comuni, ma coinvolgendo nelle decisioni dello Stato gli enti che dovranno poi attuarle».
Sindaci, consiglieri regionali e, al tempo stesso, senatori: riusciranno a far tutto nelle scadenze previste?
«A parte che non è scritto che i senatori non potranno votare anche da casa, anche ora i ministri si riuniscono una volta al mese a Bruxelles ma non per questo trascurano i ministeri. Il problema sarà costruire, dopo la riforma, una disciplina intelligente del Senato: con una struttura burocratica di base che prepari il lavoro ai senatori».
Si dice che la scrittura delle leggi andrà più spedita. Ma il nostro problema non è l’avere già troppe leggi, troppo spesso modificate?
«Sì, abbiamo una produzione legislativa preoccupante non tanto per il numero quanto per la qualità delle leggi: poco comprensibili e poco stabili. La riforma toglie una delle cause di questo problema: il passaggio tra una Camera e l’altra. Oggi se io governo faccio una proposta, che sarà approvata dopo chissà quanto tempo e quante modifiche, posso preoccuparmi poco di ciò che scrivo oggi, mi concentrerò sugli emendamenti che introdurrò alla fine. Non è un bel modo di legiferare. Una sola Camera, invece, dovrà assumersi la responsabilità delle leggi che produce e che oggi escono spesso figlie di nessuno».
L’articolo 70, sulla funzione legislativa, non sembra semplificato nella nuova Costituzione...
«Nella Costituzione del 1948 era di sole 9 parole ma nascondeva una “non regolamentazione”. Il nuovo testo è più difficile e noioso da leggere, ma sarà più facile da applicare e non darà luogo a contenziosi. Chi dice che il contenzioso aumenterà mi dovrebbe mostrare col dito sul testo quali punti provocherebbero questo effetto».
Si dice che il Governo avrà più peso rispetto ai “contrappesi”. È così?
«Fin qui i contrappesi sono stati concepiti molto all’italiana: l’idea è che essi servano a ostacolare la decisione. Ma non deve essere così: in un Paese democratico il Governo – dopo il dibattito parlamentare (la Camera serve a questo), e dopo aver sentito le autonomie locali (il Senato serve a questo) – è legittimato, anzi è tenuto a governare, cioè a decidere. Se un gruppo di minoranza, magari in commissione, può far saltare la proposta del Governo, quella non è democrazia, è dittatura della minoranza. E poi la riforma incide sui poteri del Governo riducendoli: limita il ricorso ai decreti legge, rende più effettivo il potere di indire referendum, innalza il quorum per l’elezione del presidente della Repubblica, ora eleggibile con la sola maggioranza assoluta che regge il Governo».
La stabilità che la riforma promette ci piacerebbe anche nelle mani di un futuribile Governo sgradito?
«Condivido la critica: la stabilità non è un valore in sé. Il problema è la governabilità, nel senso di capacità del sistema istituzionale di perseguire politiche pubbliche. E non la si ottiene dividendo come ora le competenze tra Stato, Regioni e Comuni, ma coinvolgendo nelle decisioni dello Stato gli enti che dovranno poi attuarle».



