In Afghanistan, oggi, curarsi è un lusso che pochi possono permettersi. Secondo il nuovo rapporto di Emergency, realizzato in collaborazione con il Crimedim (Centro Interdipartimentale di Ricerca in Medicina dei Disastri), il 60% della popolazione è costretto a rinunciare alle cure mediche per ragioni economiche, mentre un afgano su quattro rimanda interventi chirurgici, a volte anche salvavita, indebitandosi o vendendo i propri beni per pagare le spese sanitarie.

Il report, frutto di oltre 1.600 testimonianze raccolte in 11 province dove Emergency è presente dal 1999, restituisce un quadro drammatico di un Paese che, dopo decenni di guerra, si trova ora a fare i conti con un sistema sanitario fragile, sottofinanziato e in progressivo smantellamento.

«Questa situazione è il risultato di decenni di conflitti che hanno impedito uno sviluppo adeguato delle infrastrutture civili, in particolare quelle sanitarie», spiega Francesca Bocchini, referente advocacy di Emergency. «Negli ultimi mesi, la chiusura di oltre 300 cliniche ha ulteriormente compromesso l’accesso alle cure, mentre la risposta umanitaria internazionale è finanziata appena al 21%. Senza investimenti strutturali e duraturi, il malcontento e le tensioni rischiano di riaccendersi».



Il peso delle disuguaglianze

A pagare il prezzo più alto sono, come sempre, le donne. L’Afghanistan, già da anni fanalino di coda in materia di diritti femminili, vede oggi le donne escluse dalle scuole superiori e dalle università, con pesanti ricadute anche sull’accesso ai servizi sanitari.

«Le pazienti spesso esitano a parlare dei propri problemi fino a quando non sono gravi e, per ragioni culturali, preferiscono — o sono obbligate — ad essere curate solo da personale medico femminile, che però è sempre più difficile da reperire», racconta Keren Picucci, ginecologa presso il Centro di maternità di EMERGENCY ad Anabah, nella valle del Panshir. L’assenza di personale formato e la mancanza di attrezzature adeguate fanno il resto, aggravando un quadro già estremamente precario.

Non è un caso che tra le principali richieste degli intervistati emergano la necessità di più strutture sanitarie di qualità, la riduzione dei costi delle cure e dei trasporti, e una maggiore presenza di operatrici sanitarie.



Barriere economiche, geografiche e culturali

Oltre ai costi proibitivi delle cure, che costringono molti afgani a vendere beni personali o chiedere prestiti, le difficoltà di spostamento rappresentano un ostacolo enorme. Solo il 2% degli intervistati dichiara di aver potuto utilizzare un'ambulanza pubblica, mentre quasi la metà è stata costretta a percorrere lunghi tratti a piedi. Il 79% ha dovuto recarsi in un’altra città, provincia o addirittura oltre confine per ricevere assistenza chirurgica. Le donne, in particolare, sono costrette a spostarsi in due casi su tre per accedere ai servizi di cui hanno bisogno.

Il risultato? Oltre un terzo degli intervistati ha subito gravi conseguenze per il mancato accesso alle cure, con casi di disabilità permanente o decessi evitabili.



La voce degli afgani e il grido di allarme di Emergency

Il rapporto, intitolato Accesso alle cure d’urgenza, critiche e chirurgiche in Afghanistan. Prospettive del popolo afgano e degli operatori sanitari di 11 province, si basa su dati raccolti tra i pazienti dei Centri chirurgici di Kabul, Lashkar-gah e Anabah, il Centro di maternità e pediatria di Anabah e oltre 40 posti di primo soccorso e centri sanitari sparsi nel Paese.

«A quattro anni dall’abbandono delle forze internazionali e dall’insediamento del nuovo governo, l’Afghanistan è scomparso dalle priorità della comunità internazionale», denuncia Dejan Panic, direttore del programma Emergency in Afghanistan. «Ma le necessità sanitarie della popolazione non sono scomparse. Anzi, la fragilità del sistema rischia di esplodere in una nuova crisi».

L’ong italiana, che opera nel Paese da oltre 25 anni, invita le autorità locali e la comunità internazionale a non voltare le spalle agli afgani. Tra le dieci raccomandazioni chiave del report, figurano il rafforzamento delle infrastrutture sanitarie, l’abbattimento delle barriere economiche, l’investimento nella formazione di personale qualificato — soprattutto donne — e il sostegno continuo ai programmi di assistenza umanitaria.

«Non si costruisce la pace solo fermando le armi — conclude Bocchini — ma garantendo servizi sanitari, scuole, infrastrutture accessibili e resilienti. Abbandonare l’Afghanistan significa condannare milioni di persone a un futuro senza diritti e senza speranze».