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La morte di due bambine e di una ragazza di vent’anni bruciate vive a Roma non può non interrogarci come persone, prima che come cristiani e come cittadini. Solo l’idea mette i brividi. Ma deve interrogarci anche come cittadini di uno Stato di diritto. Perché questa tragedia ci ricorda, nella maniera più violenta e brutale, che dove non si afferma legalità e dove non si governa il degrado, vince la prevaricazione di chi in quel momento possiede l’arma più potente o la spregiudicatezza maggiore e prima o poi finiscono per pagare i più deboli: bambini in questo caso.
Dopodiché possiamo discutere sulle modalità del governare, ma è difficile immaginare che quel verbo, verso il quale siamo tentati a volte di provare insofferenza, non possa passare per un giusto equilibrio di prevenzione e controllo. Quando mancano, al di là della buona volontà delle persone, l’uno o l’altra o, peggio, entrambi – per incapacità, perché non si sa come fare, per mancanza di volontà, di mezzi, di strategia – non è difficile immaginare che, a forza di lasciare che sia, per anni, a volte per decenni, finisca per prevalere nella convivenza qualcosa di diverso dal sistema di regole previsto dallo Stato.
Che la tragedia di Roma sia sorta, come pare, da un regolamento di conti tra clan interno alla comunità rom, anziché dalla tensione sociale che monta dentro un quartiere difficile abbandonato al proprio disagio a questo punto cambia poco nella sostanza, né ci può illudere di coinvolgerci di meno, perché l’esito racconta comunque l’immagine di inadeguatezza di uno Stato, che non trovando la forza di affermare le proprie regole, chiude un occhio davanti al rischio che ne dilaghino altre.
C’era arrivato Hobbes secoli fa, teorizzando concetti che hanno portato allo Stato di diritto: dove le tensioni non vengono governate, dove non ci sono regole che valgono per tutti – nei diritti e nei doveri che non possono mai essere disgiunti – vince la prevaricazione del più forte sul più debole. Nella sregolatezza, forza e debolezza si alternano, ma è sempre un’alternanza di prevaricazione e diritti negati, dove le ragioni degli uni soccombono di volta in volta ai torti degli altri, dove l’articolo 3 della Costituzione sparisce dalla scena in un magma indistinto dove ognuno fa come vuole o come può.
In questi giorni si parla tanto di sicurezza, e forse, al di là dei furori e delle semplificazioni ideologiche, emotive e di sensibilità, è giusto meditare su una riflessione del ministro Minniti: “La sicurezza è un problema dei deboli”.
Ed è oggettivamente difficile immaginare fragilità maggiore di un bambino che muore di morte violenta – in un Paese che si presume civile - senza che nessuno riesca a difenderlo.



