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Valeria Della Valle, docente di linguistica italiana all’Università La Sapienza di Roma, qualche volta scrive per l’Accademia della Crusca risposte ai quesiti degli utenti, come quella firmata dal collega (lui sì accademico ordinario) Vittorio Coletti, autore del parere sul tema “Siedi il bambino” che tanto scandalo sta destando. Non essendo accademica della Crusca, iscritta nello statuto, Valeria Della Valle può parlare del casus belli senza essere accusata di difese corporative. Anche per questo l’abbiamo chiamata e non glielo nascondiamo, impostando tutta la chiacchierata a partire da un sorriso.
Professoressa, com’è stato il telefono di una linguista in queste ore?
«Incandescente (ride), anche oggi. Il dato positivo di tutta la situazione è che episodi come questi suscitano la passione degli italiani, a me pare un bene che s’interessino delle sorti della nostra lingua».
Non sarà che sotto sotto voi linguisti provocate per fare notizia come qualcuno sostiene accusandovi di “modernismo”?
«No, no, no (ride). Non potrei mai neanche immaginare che sia una provocazione volontaria, però io dico che da tutto il vespaio suscitato, alla fine, qualcosa di buono esce: ognuno riflette sull’argomento, dice la sua, si scandalizza oppure no… Gli italiani in fondo amano la loro lingua e appena avvertono qualcosa che loro credono sbagliato, si ribellano. Anche se mi pare che in questo caso tutto sia partito da una sovrainterpretazione sbagliata».
In che senso, che è successo esattamente?
«Vittorio Coletti, bravissimo linguista genovese, aveva semplicemente spiegato l’esistenza di un certo tipo di costruzione con verbi intransitivi. Non ha mai “sdoganato”, ma è bastato un titolo a effetto sui media: “L’Accademia della Crusca ha sdoganato “siedi il bambino”, “esci il cane”" per scatenare il dibattito. In realtà, se si va a leggere il pezzo di Coletti, si scopre che ha un titolo non ambiguo: “Siedi il bambino? No, fallo sedere!”. Il titolo chiariva subito che “siede il bambino” è un errore e bisogna dire in un’altra maniera. Questo è il primo punto».
Ce n’è un secondo?
«Sì, l’Accademia della Crusca non ha il compito di “proibire”, di “censurare”, bensì di fare la storia della nostra lingua, di spiegarne usi, modi di dire, parole. Non si è mai arroccata sull’idea della proibizione ma si è messa a disposizione per spiegare. In quest’ottica Vittorio Coletti ha detto che le espressioni “Siedi il bambino”, “esci il cane”, nelle quali verbi intransitivi vengono fatti seguire direttamente da un complemento oggetto - qualcosa che nella nostra grammatica e tradizione non è accettato –, sono però molto comuni in ambito familiare, colloquiale, regionale (del Meridione, ma non solo). Non ha detto: “Va bene, fate pure”. Ha registrato il fatto che sono così comuni da essere state registrate nel Grande dizionario italiano dell’uso di Tullio De Mauro. Se si va a cercare il verbo “sedere” si trova “Siedi il bambino” con la spiegazione: “Fallo sedere”, seguito dall’abbreviazione “co.”, cioè comune. Da qui a dire è stato sdoganato, approvato, ne corre. Coletti ha detto che nell’italiano ufficiale, formale, scritto questo uso né si è posto, né è accettato. I maestri e i professori continueranno a correggerlo e anche gli italiani continueranno giustamente a inorridire ascoltandolo. Il caso, però, va un po’ ridimensionato, sta accadendo come con “petaloso”, di cui ancora si parla».
Tutto questo accade anche perché gli italiani dall’Accademia della Crusca si aspettano anche un ruolo “normativo”, di tutela della norma, benché il mestiere del linguista nei fatti si avvicini più a quello dell’entomologo, dell’osservatore scientifico dei comportamenti, che a quello del giudice.
«Esattamente, il comune sentire dal linguista vuole certezze. Nei dibattiti con il pubblico tutto va bene finché dico “questo è giusto” o “ questo è sbagliato”, quando invece dico: “dipende, si può dire così e anche cosà”, vedo nelle pupille un’ombra di smarrimento. Sulla grammatica si vuole o il bianco o il nero. E invece la storia della lingua italiana è fatta di grigi, di varianti, di mutamenti. C’è il caso emblematico del congiuntivo: tutti vogliono sentirsi dire che è morto. Ma non è vero: se andiamo a vedere le statistiche capiamo che gode di buona salute, sono più i casi di congiuntivo usato in eccesso, pensando di essere più eleganti, dove si potrebbe tranquillamente scegliere l’indicativo. Se dici questo, però, non sei ben accetto, l’opinione pubblica vuole sentire che va tutto a ramengo a cominciare dalla lingua. È ovvio, tanti problemi ci sono nell’uso linguistico degli italiani, ma sono problemi più grandi di questi, come la bassa scolarizzazione, che è un problema culturale generale e invece ci aggrappiamo all’Oddio la Crusca ha sdoganato “siedi il bambino”. È vero, però, che questo scandalo, che produce dibattito e che da giorni ci fa parlare di verbi transitivi e intransitivi sui giornali e alla radio, produrrà un effetto positivo: qualche italiano che ha lasciato la scuola da tanto tempo avrà occasione di ripassare, di sentirsi ripetere che “sedere” e “uscire” sono in realtà intransitivi».
È vero che gli italiani sono molto affezionati alle regole imparate a scuola magari molti anni prima, tanto da contrastarne idealmente anche l’eventuale evoluzione?
«Sì, ricevo decine di lettere di persone tra l’età di mezzo e l’età avanzata che mi dicono: a scuola mi hanno insegnato così, ora sento che i miei nipoti si esprimono in altro modo. Chi ha ragione io o mio nipote? Avvertono molto il senso delle regole infrante. Il più delle volte hanno ragione loro, perché sono regole che vanno ancora osservate, ma, anche se è difficile da accettare, dobbiamo pensare che le lingue molto lentamente cambiano: fino all’Ottocento si scriveva “io amava”, era un errore scrivere “io amavo”. Poi Alessandro Manzoni ha cominciato a scrivere “io amavo” e ora nessuno di noi si sognerebbe di scrivere seriamente “io amava”, se non per scimmiottare l’antico, perché nel frattempo l’errore è diventato norma».
Accadrà anche con “siedi il bambino”?
«Forse sì: se prevarrà nell’uso un giorno sarà un po’ meno errore, ma dè presto per dirlo. Lo scopriranno vivendo, forse, i figli dei nostri nipoti».



