È scomparsa a 93 anni Mamma Erasmus. Intervistata da Famiglia Cristiana nel 2017, per i 30 anni della sua "creatura", ci raccontò che inizialmente nessuno le dava retta ma poi grazie a lei milioni di giovani hanno potuto studiare all’estero e ci spiegò cosa impara un ragazzo che accede al programma. Peccato, aggiungeva che il costo grava ancora in parte sulle famiglie e che per questo non tutti se lo possono permettere.

 

«Ho sentito oggi una storia “donchisciottesca” ma a lieto fine». Parole del re di Spagna. E la Don Chisciotte in questione è Sofia Corradi, 82 anni, a cui veniva consegnato, il 9 maggio del 2016, il prestigioso Premio Carlo V. In presenza di Felipe VI, di Martin Schulz e di centinaia di ragazzi che hanno avuta la fortuna di accedere al Programma di cui la studiosa è considerata l’ideatrice. Per Sofia Corradi, Mamma Erasmus, un’emozione indescrivibile. Nell’ovazione degli “erasmiani” presenti ha sentito il valore della sua vittoria. E nelle parole del re il significato della sua impresa. Perché è vero, il 15 giugno si festeggiano i 30 anni della ratifica del Programma Erasmus, cioè la possibilità di effettuare in un’università straniera un periodo di studio legalmente riconosciuto dal proprio ateneo. Ma prima dei 30 anni, che festeggiamo nel 2017, ci sono 18 anni di lotta a forza di promemoria, telefonate, agguati a tutti coloro che avrebbero potuto contribuire a rendere realtà la sua intuizione.

Nel 1959, infatti, la giovane Sofia volle studiare a New York. Conseguito un Master in diritto comparato, in Italia si rifiutarono di riconoscerlo: «Un’ingiustizia che dovevo sanare. Sono passati 48 anni da allora. Essere una giovane donna forse mi ha aiutato perché mi ritenevano poco potente». Si sbagliavano di grosso. Sofia Corradi, fino al 2004 docente di formazione degli adulti, voleva che fosse riconosciuta, sulla base della sua esperienza, l’opportunità di studiare all’estero: «Perché è così che si allevano i giovani alla vita adulta». È un fiume in piena quando parla della sua creatura: «Erasmus è l’unica cosa dell’Unione su cui ora tutti sono d’accordo. Quando iniziò erano contrari i burocrati e le persone di modesta statura scientifica. I grandi scienziati e studiosi capivano che era cosa buona e che avrebbe promosso pace e senso comunitario». Ripercorre gli anni che portarono al 1987 come «la storia di 18 anni di sgarberie e di sconfitte». Ma vinse lei e la sua educazione all’internazionalismo.

Che significato ha oggi in piena globalizzazione? «Educare all’internazionalismo significa dare spazio solo agli aspetti positivi della globalizzazione. Chi va in Erasmus torna indietro e non giudica e impara che si insegna solo con l’esempio. Non è un caso se le statistiche dicono che l’erasmiano ci mette metà tempo a trovare lavoro dopo la laurea e nel giro di dieci anni si trova in posizioni decisionali. Perché ha imparato a lavorare in équipe, a negoziare, a trovare le intese». L’Erasmus, aggiunge Sofia Corradi, non è per tutti ma per coloro che posseggono la cosa più importante al mondo: «La curiosità e la voglia di apprendere». Unico rammarico il fatto che ancora oggi vanno in Erasmus soprattutto i figli di famiglie benestanti o culturalmente elevate. La borsa di studio prevista permette di coprire solo una parte delle spese: «Eppure è tutto scritto nella Costituzione all’articolo 34 “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”».

Ecco quindi il consiglio di Mamma Erasmus: «L’erasmiano “accorto” sa muoversi per individuare borse di studio e impara ad arrangiarsi per coprire il resto della spesa. Per esempio informandosi tramite altri studenti come trovare lavoretti. Nelle università straniere è possibile. E i regali di Natale e di compleanno se li fa dare in denaro, altro che inutili oggetti». La Spagna è uno dei Paesi che ha più erasmiani in entrata e in uscita. Poi ci sono i Paesi dove si studia in inglese. Ma recentemente il fronte si è aperto su molti altri Stati. «Ho conosciuto un ragazzo che è stato in Estonia e gli ho chiesto come ha fatto a comunicare. “Non è importante la lingua”, mi ha spiegato, perché in Erasmus “ho imparato a sorridere in tutte le lingue del mondo”».