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Intellettuale non era, o meglio, non voleva esserlo. Preferiva definirsi pensatore o qualsiasi altro termine che non fosse così rigidamente incasellato in una categoria predefinita. Giorgio Simonelli lo definisce “animatore culturale”, per riprendere una terminologia tipica degli anni Settanta. E che allora, in un contesto politicamente e socialmente acceso, si addiceva perfettamente a Goffredo Fofi, saggista, critico, giornalista e attivista eugubino spentosi oggi, 11 luglio 2025, a Roma. Il docufilm del 2020 di Felice Pesoli a lui dedicato si intitola Suole di vento: Fofi infatti era sempre in treno, ora in direzione Palermo, poi Torino, Roma, Parigi, Napoli, Bologna, Milano. Andava ovunque ritenesse necessario un lavoro politico, sociale e culturale. In questo andirivieni fondava e dirigeva riviste che hanno fatto la storia del Novecento: Quaderni rossi, Quaderni piacentini, Ombre rosse, Linea d’ombra, Lo straniero, per ricordarne alcune. Incontrava e promuoveva giovani scrittori e giornalisti. Ne stroncava altri, senza riguardi. Aveva uno sguardo critico temutissimo sul cinema e uno altrettanto mite nei confronti delle situazioni sociali limite: dalla Palermo di Danilo Dolci alle sommosse operaie della Torino della Fiat. Per tratteggiare la sua figura, abbiamo raccolto il ricordo del Professor Giorgio Simonelli.
Goffredo Fofi viene spesso descritto come un intellettuale “fuori dal coro”. Cosa significava davvero questa definizione?
«Fuori dal coro lo è stato davvero, per diversi motivi. Innanzitutto perché era un tipo di intellettuale a cui oggi non siamo più abituati. C’è una parola che andava di moda qualche decennio fa e che oggi sembra scomparsa: Fofi è stato un animatore culturale. Non era solo un teorico, uno che scriveva e rifletteva, ma uno che faceva. Organizzava corsi, incontri, dibattiti, costruiva reti quando ancora non si parlava di “fare rete”. Viveva la cultura come pratica quotidiana e collettiva. Era poi un uomo marcatamente di sinistra, di una sinistra radicale, spesso persino alla sinistra del PCI, che all’epoca era egemone anche culturalmente. Ma a prescindere dall’ideologia, Fofi aveva gusti molto personali, liberi. Pensiamo alla sua attenzione per Totò: un attore che la sinistra culturale tendeva a snobbare, considerandolo “popolare” nel senso più basso del termine. Fu il critico più di sinistra, invece, a rivalutarlo prima di tutti. E questa si può definire un’azione “fuori dal coro”. Scrisse un libro su Totò, e poi, insieme a Franca Faldini – compagna dell’attore – pubblicò L’avventurosa storia del cinema italiano, che resta uno dei testi più originali e umani sulla storia del nostro cinema. Era un modo di fare critica, di fare storie del cinema molto diverso da quella che è la linea, diciamo, ufficiale. Quel tipo di storia del cinema era fatta di voci, aneddoti, testimonianze. Non era costruita su gerarchie rigide o su teorie astratte. Era una narrazione viva, affettuosa, militante. Un’operazione critica molto nuova per l’epoca, che aprì la strada a una visione diversa del nostro cinema. Che è stata anche pericolosa, intendiamoci. Perché alla fine poi, come sempre succede, quando qualcuno fa un'operazione anticonformista, viene seguito da persone che non sono all'altezza di chi ha aperto la strada».
Fofi si occupava anche di cultura popolare, ma con uno sguardo molto preciso.
«Sì, c’è un equivoco molto diffuso: cultura popolare non vuol dire tutto. Non tutto ciò che ha successo è “cultura popolare”. Fofi aveva idee molto chiare su questo. Popolare non vuol dire banale, e nemmeno significa automaticamente di massa. La cultura popolare, per lui, era qualcosa che meritava rispetto e attenzione, ma andava letta con strumenti critici adeguati. Non bastava il consenso per nobilitare un prodotto».
È stato anche un polemista molto acceso..
«Molto. Ricordo ancora il dibattito intorno alla rivista Ombre Rosse, che Fofi contribuì a fondare. Era una rivista dura, tagliente. Attaccava un certo cinema italiano senza mezzi termini. Ricordo per esempio il caso di Banditi a Milano di Carlo Lizzani: fu stroncato. Ma quella radicalità era in linea con l’epoca e con la lezione di Pasolini, altro grande polemista e intellettuale con cui Fofi ebbe un dialogo serrato, anche se spesso conflittuale».
All’epoca la critica aveva davvero un peso enorme nel dibattito culturale.
«C’erano almeno dieci riviste di cinema in Italia. Il cinema era centrale nel dibattito pubblico, come oggi possono esserlo i social o la TV. Era il luogo pulsante della vita culturale civile. Giudicare un film era quindi un atto politico. Un critico poteva influenzare la percezione pubblica di un’opera, orientare il dibattito. Oggi quel potere è evaporato. La critica non incide più, anche perché tutti si esprimono, tutti dicono la loro, anche attraverso i social. Questa è una cosa che Fofi ci rivela: il cinema era centrale nella vita pubblica, oggi non fa più parte del dibattito».
In queste ore è arrivato anche il ricordo di Marco Bellocchio…
«Sì, ma in realtà Fofi era più vicino al fratello di Bellocchio, che fondò i Quaderni piacentini. Anche quella era una rivista straordinaria, di grande spessore politico e teorico. Pochi numeri, tirature limitate, ma una forza culturale enorme. Leggere i Quaderni piacentini era il segno tangibile di un'appartenenza, di un modo di pensare, anche molto elitario».



