Ci sono numeri uno del tennis nati dalla pianificazione al limite della follia di genitori divorati dall’ambizione: è il racconto alla base di Open, autobiografia di Andre Agassi, ed è quanto evoca il nome di Martina Hingis, battezzata già pensando alle orme di Martina Navratilova. Quanti se ne saranno persi di “iniziati” così, senza che il mondo abbia avuto notizia di loro? ssione alcuna E poi c’è Jannik Sinner, il numero uno al mondo, il primo della storia del tennis italiano, con migliaia di punti di vantaggio sull’inseguitore, Carlos Alcaraz. Jannik è figlio di una famiglia che, oggi, da campione, ringrazia sempre per non avergli mai messo pree per averlo educato nella libertà e responsabilità di scegliere. Ecco, Jannik è l’esito, sperabile ma non prevedibile, della programmazione di una Federazione (allora Fit, oggi Fitp, perché include anche il padel) che una quindicina di anni fa ha avuto il coraggio di chiedersi dove stesse sbagliando, in un Paese che da sempre produce campioni dalla scherma alla pallavolo, dal curling alla vela, e che, invece, ha atteso per 45 anni a livello maschile un tennista in grado di arrivare a una finale dello Slam.

Era il 2010. Dopo tre lustri il risultato non è Jannik, ma l’iceberg di cui Sinner è il vertice della punta emersa che conta sette tennisti italiani nei primi 50 al mondo, punto più punto meno, e del sommerso che è il lavoro alla base di un successo sportivo, sotto gli occhi di tutti, ma anche economico: + 900% delle entrate e tesserati da 140 mila a oltre 600 mila tra il 2003 e il 2023. Nel 2001 al vertice della Federazione, reduce da commissariamento e indebitata, era salito come presidente Angelo Binaghi, ingegnere, rieletto nel settembre scorso per il settimo mandato con la percentuale bulgara del 96,1%: un consenso che gli concede il lusso, che non si nega, di togliersi di tanto in tanto sassolini dalle scarpe.

«Il segreto è l’investimento nella formazione degli insegnanti di tennis del settore giovanile under 10- 16», racconta Michelangelo Dell’Edera, che del “rinascimento”, o forse della “rivoluzione”, è stato testimone e protagonista, dal 2010 direttore dell’Istituto superiore di formazione (Isf) Roberto Lombardi, ex scuola nazionale maestri della Federtennis. «Ci ha ispirato, nel nostro piccolo, una frase di Nelson Mandela: “L’istruzione è l’arma migliore per cambiare il mondo”». Si trattava di cambiare solo il microcosmo del tennis, ma ha funzionato: «Abbiamo bandito concorsi per psicologi, fisioterapisti, esperti di alimentazione, tecnici degli attrezzi, perché avevamo bisogno di innalzare la nostra cultura sportiva e perché la Federazione, nel sostenere i ragazzi talentuosi che crescevano, potesse dar loro il supporto di queste figure: i talenti ci sono sempre stati, ma bisognava trasformare le capacità in abilità».

La parola chiave della nuova era è “decentramento”: «Abbiamo portato la formazione in periferia, così chi vuole diventare insegnante di tennis ora può prepararsi nella sua regione senza venire a Roma, e aperto bandi di concorso per circoli che affittavano campi ma non avevano il maestro», e intanto le 1.200 scuole tennis del 2010 ora sono 2.700. «Non convochiamo più stabilmente i ragazzini più promettenti dai 12 anni al centro tecnico federale di Tirrenia, ma aiutiamo i circoli in cui si allenano creando un ambiente virtuoso e una sinergia, supportando gli allenatori con le professionalità che servono e con borse di studio per l’attività internazionale giovanile, senza portare via i ragazzi da bandi di concorso per circoli che affittavano campi ma non avevano il maestro», e intanto le 1.200 scuole tennis del 2010 ora sono 2.700. «Non convochiamo più stabilmente i ragazzini più promettenti dai 12 anni al centro tecnico federale di Tirrenia, ma aiutiamo i circoli in cui si allenano creando un ambiente virtuoso e una sinergia, supportando gli allenatori con le professionalità che servono e con borse di studio per l’attività internazionale giovanile, senza portare via i ragazzi da casa o dal luogo dove si allenano: in questo modo i maestri non hanno più motivo di chiedersi: “A che mi serve impegnarmi se poi quando diventa bravo me lo portano via?”. E la famiglia affronta il percorso con maggior serenità: ci preoccupiamo meno dei risultati sportivi e più di formare bene le persone, perché se poi un ragazzo non arriva, almeno non si perde».

Per creare quella che Dell’Edera chiama “ragnatela tecnica” sul territorio nazionale, la Federazione si serve di 155 tecnici provinciali, talent scout che fanno raduni con i piccoli di 8-10 anni: «L’obiettivo non è vincere subito o presto, ma creare le condizioni per farlo a tempo debito».

Basta guardare i tennisti italiani di oggi, da Sinner a Berrettini, passando per Musetti, Cobolli, Sonego, Arnaldi e Darderi, molto diversi l’uno dall’altro, ma con in comune la capacità di risolvere gli scambi, per capire che sono lontani i tempi degli italiani maratoneti della racchetta sulla terra rossa. Anche questo non è casuale, ma figlio di una scelta, anzi di due progetti in tema di campi veloci e coperti: «Constatato che l’80% dei punti della classifica mondiale Atp e Wta (le associazioni professionistiche maschile e femminile del tennis, ndr) si assegna su superfici dure (non terra e non erba, ndr), abbiamo trasformato così il 30% dei campi in terra e garantito una quantità sufficiente di campi coperti per dare continuità d’allenamento durante l’inverno». Anche la didattica ha avuto la sua rivoluzione: «Diamo prevalenza a servizio e risposta, che non sono colpi, ma azioni di inizio gioco decisive nel tennis moderno.

Non solo, nella vecchia tipologia prima veniva il come (la tecnica); poi il quando (la tattica); infine il perché (la strategia). Ora partiamo dal perché: la strategia si adatta alle potenzialità del ragazzo. La tecnica è individuale, ognuno ha la sua, così, rispettando i principi biomeccanici, enfatizziamo le personalità». E questo spiega perché il modello italiano, finito anche sul New Yorker, plasma campioni, ma non con lo stampino.

(Servizio uscito sul Famiglia Cristiana 45/24)