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«Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere»: la celebre proposizione del Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein, uno dei grandi pensatori del Novecento, è fra le massime più disattese. L'imperativo oggi è di essere presenti, pronunciarsi sempre, dire la nostra per affermare la nostra presenza. Provate a pensare se non è così, ad esempio, nei talk-show televisivi o nei social media (Facebook, Twitter...). Il silenzio viene rifuggito come la peste, aborrito da un'umanità che sembra in preda all'horror vacui.
In teoria, siamo tutti d'accordo: se non conosciamo un argomento, l'atteggiamento migliore sarebbe il silenzio, ovvero l'ascolto, al massimo l'interrogativo volto a reperire informazioni. Se non che è esperienza davvero rara trovare persone in grado di ascoltare, di fermare la loro lingua e aprire mente e cevello per lasciare spazio alla parola altrui. Tendiamo a dire, raccontare, formulare il nostro pensiero, far conoscere il nostro giudizio, come se valesse più di quello altrui. La proposizione di Wittgenstein, allora, denuncia anzitutto la nostra inettitudine all'ascolto, la scarsa propensione ad accogliere l'altro (e l'alterità in ogni sua forma). E mette a nudo l'egocentrismo che pervade l'atmosfera che respiriamo.
Accettare il silenzio, significa anche riconoscere la nostra ignoranza: nulla di drammatico, lo siamo tutti, in senso relativo. E sarebbe positivo ammetterlo. Ciò faciliterebbe non poco il dialogo, perché, se incontro qualcuno che su un dato tema ne sa più di me, mi metto volentieri ad ascoltarlo, gli rivolgo domande, per imparare qualcosa di nuovo. Al contrario, in un Paese in cui è una minoranza quella che legge qualche libro all'anno, l'ignoranza non è tollerata, ancorché dilagante. Non eccelliamo, in umiltà, diciamo così, nella misura in cui ci distinguiamo per presunzione...
Il silenzio potrebbe rivelarci mondi sconosciuti. In gergo filosofico, potremmo dire che ha una valenza euristica: potrebbe cioè metterci nella condizione di scoprire fuori di noi e, ancora di più, dentro di noi, dimensioni invisibili ma non per questo meno affascinanti ed essenziali alla nostra vita. Osiamo dire che non c'è sacro senza silenzio, perché a chi è pieno di rumori e di parole non si apre la via al trascendente, a quella dimensione che, verrebbe da dire, sta sopra il chiacchiericcio quotidiano.
In fondo, il lettore è colui che mette in pratica la massima di Wittgenstein: cerca un luogo tranquillo, fa silenzio dentro di sé per portare nel proprio cuore e nella propria mente qualcosa che prima non c'era.
In teoria, siamo tutti d'accordo: se non conosciamo un argomento, l'atteggiamento migliore sarebbe il silenzio, ovvero l'ascolto, al massimo l'interrogativo volto a reperire informazioni. Se non che è esperienza davvero rara trovare persone in grado di ascoltare, di fermare la loro lingua e aprire mente e cevello per lasciare spazio alla parola altrui. Tendiamo a dire, raccontare, formulare il nostro pensiero, far conoscere il nostro giudizio, come se valesse più di quello altrui. La proposizione di Wittgenstein, allora, denuncia anzitutto la nostra inettitudine all'ascolto, la scarsa propensione ad accogliere l'altro (e l'alterità in ogni sua forma). E mette a nudo l'egocentrismo che pervade l'atmosfera che respiriamo.
Accettare il silenzio, significa anche riconoscere la nostra ignoranza: nulla di drammatico, lo siamo tutti, in senso relativo. E sarebbe positivo ammetterlo. Ciò faciliterebbe non poco il dialogo, perché, se incontro qualcuno che su un dato tema ne sa più di me, mi metto volentieri ad ascoltarlo, gli rivolgo domande, per imparare qualcosa di nuovo. Al contrario, in un Paese in cui è una minoranza quella che legge qualche libro all'anno, l'ignoranza non è tollerata, ancorché dilagante. Non eccelliamo, in umiltà, diciamo così, nella misura in cui ci distinguiamo per presunzione...
Il silenzio potrebbe rivelarci mondi sconosciuti. In gergo filosofico, potremmo dire che ha una valenza euristica: potrebbe cioè metterci nella condizione di scoprire fuori di noi e, ancora di più, dentro di noi, dimensioni invisibili ma non per questo meno affascinanti ed essenziali alla nostra vita. Osiamo dire che non c'è sacro senza silenzio, perché a chi è pieno di rumori e di parole non si apre la via al trascendente, a quella dimensione che, verrebbe da dire, sta sopra il chiacchiericcio quotidiano.
In fondo, il lettore è colui che mette in pratica la massima di Wittgenstein: cerca un luogo tranquillo, fa silenzio dentro di sé per portare nel proprio cuore e nella propria mente qualcosa che prima non c'era.



