Aveva compiuto novant’anni il 10 ottobre, Andrea Zanzotto, nato a Pieve di Soligo nel 1921. Si è spento la mattina del 18 ottobre e con lui l’ultimo dei grandi vecchi della poesia italiana del Novecento. Stella polare della sua avventura intellettuale e poetica (da ricordare, come per tanti poeti novecenteschi, da Luzi a Pasolini a Raboni, anche il suo versante critico) è stata da sempre una terremotata, instabile, febbricitante esperienza del linguaggio.

Fin dal limpido e un poco spaesante esordio (quasi in odore di tardo ermetismo) di Dietro il paesaggio (1951), è chiaro che il poeta tratta del mondo sub specie linguistica e che le cose si fanno e si disfano al tocco dei nomi: cangianti, mobili, paludosi, semenzai di scoperte e di brillii. È il pullulare del linguaggio che dice il mondo – più che il mondo stesso – a interessare al poeta, già in quella raccolta tanto avanzato, oltre che nell’uso della retorica, nel maneggio dei significanti, dei suoni, delle suggestioni foniche: quelle che, dopo alcuni libri tra i suoi più alti e complessi (Elegia e altri versi, 1954; Vocativo, 1957; IX Ecloghe, 1962), occuperanno il campo da La beltà (1968) in poi, con il vitale e pur complesso contro-canto dei testi in dialetto.
Il codice linguistico diventerà auto-produttivo, proliferante, a tratti caotico: i suoi testi si faranno mappe, ingorghi di segni, esplosioni e implosioni di frammenti di linguaggi (è l’esperienza che prosegue nella trilogia costituita da Il Galateo in Bosco, 1978; Fosfeni, 1983 e, con recupero di trasparenza, Idioma, 1986: del resto anche nei punti più ardui il significato continua a prodursi, tra faglie storiche e letterarie in movimento e in attrito, come nel Galateo). La buona sorte critica dell’autore volle che anche la sua fase più anti-comunicativa fosse da subito accettata, glossata e storicizzata.

Per fortuna il suo “esistere psichicamente” (come suona il titolo di un testo di Vocativo) lo ha spinto ancora e sempre a sommuovere i campi della vitalità linguistica, il fondo verbale dell’immaginazione, senza assestarsi in una maniera puramente sperimentale. Così da una connaturata inquietudine, da un balbettio che ha qualcosa di vitalistico e di avventuroso, sono nati ancora testi ribollenti e sussurranti: quelli che punteggiano le raccolte ultime, da Meteo (1996) fino al recente Conglomerati (2009), all’unisono con mutazioni climatico-epocali.

Ripercorrendo la sua lunga carriera, un libro sull’orlo dell’esplosione sperimentale, tenacemente in equilibrio,
cui merita tornare a guardare, è certamente IX ecloghe: si rileggano da lì Per la finestra nuova («[…] O mia finestra, purezza inestinguibile. / Per farti spesi tutto ciò che avevo. / Ora, non lieto, in povertà completa, / ancora tutti i tuoi doni non gusto. // Ma tra poco / tutto mi darai quel che anelavo») e Così siamo («Dicevano, a Padova, “anch’io” / gli amici “l’ho conosciuto”. / E c’era il romorio d’un’acqua sporca / prossima, e d’una sporca fabbrica: / stupende nel silenzio […]») e si troverà, a un passo da più cerebrali invenzioni, il centro nevralgico di una poesia sospesa tra attesa e delusione, tra affermare e negare, tra senso e non senso.