Cominceremo con una curiosità. Molti lettori nelle memorie dei loro studi possono forse ritrovare il nome della ninfa che catturò per sette anni Ulisse nella sua grotta prima che la dea Atena lo liberasse: questa femmina fatale e mitica si chiamava Kalypsô (Calipso), che in greco ha alla base il verbo kalyptô, «nascondere». Ebbene, noi – alle soglie dell’Avvento, quando si legge nella liturgia dei giorni feriali il libro dell’Apocalisse – spiegheremo proprio la parola apokálypsis, presente 18 volte nel Nuovo Testamento: anch’essa deriva dal verbo kalyptô, ma con la preposizione apó che ribalta il valore del verbo: da «nascondere» lo trasforma in «rivelare».
«Apocalisse» significa, allora, «rivelazione». Noi, però, non presenteremo il libro così intitolato, l’ultimo della Bibbia, ma il genere letterario che convenzionalmente è denominato come «apocalittica» e che ebbe successo tra il 200 a.C. e il 200 d.C., toccando sia il giudaismo, sia il cristianesimo. Una rinascita di questa proposta di «svelamento» della meta ultima dell’avventura umana e cosmica si è verificata sporadicamente in vari periodi storici successivi, attraverso il «revival», anche nei nostri tempi, di alcuni movimenti fondamentalistici, soprattutto di matrice protestante.
Due sono le note che possono definire il fenomeno apocalittico piuttosto complesso e dai risvolti talora esoterici e fin inquietanti. Innanzitutto è da segnalare della sua concezione della storia. Essa è in pratica dualistica: si oppongono in una lotta continua bene e male, Dio coi suoi angeli e i giusti ed eletti contro Satana, i demoni e i malvagi, il presente storico perverso e inquinato coi suoi poteri forti e il futuro trascendente e salvifico, la terra, sede dell’iniquità, e il cielo, meta suprema e liberatoria. C’è, quindi, un rigetto della storia presente e una frenetica attesa delle «cose ultime» (tecnicamente si parla di «escatologia» o di «novissimi»).
Quella meta estrema, vera e propria fine del mondo storico per far sorgere l’alba del regno di Dio (in alcuni scritti preceduta da un millennio col regno del Messia sulla terra), è conquistata attraverso una lotta suprema, terribile e sanguinosa. Essa comprende la dissoluzione catastrofica di questo mondo perché dalle sue ceneri fiorisca e trionfi il regno del bene e della giustizia, sorgente di liberazione e glorificazione per i giusti ora oppressi. È da questa concezione che nasce l’accezione popolare di «apocalittico» come di rovinoso e tragico (si pensi al film Apocalypse now di Francis Ford Coppola del 1979).
Nelle forme apocalittiche più radicali c’è, quindi, una sostanziale sfiducia nella storia e una profonda speranza in un oltre trascendente: si è, perciò, in discontinuità con la visione cristiana dell’Incarnazione per la quale «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito… non per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (Giovanni 3,16-17).
L’altra osservazione che vorremmo proporre riguarda, invece, la dimensione letteraria dell’apocalittica. Essa si esprime con un suo stile originale basato sull’uso di immagini accese, di frenetiche simbologie, di un linguaggio specifico, di rivelazioni e visioni misteriose interpretate da angeli. Una delle fonti bibliche è costituita dai profeti Ezechiele (in particolare le sue azioni simboliche e i capitoli 40- 48) e Zaccaria (soprattutto le visioni dei capitoli 1-6).
Il testo anticotestamentario che rivela la maggior impronta apocalittica è il libro di Daniele, mentre per il Nuovo Testamento è ovviamente l’Apocalisse, anche se quest’ultima è «apocalittica» più per il linguaggio adottato che non per i contenuti: sua intenzione, infatti, è quella di infondere fiducia ai cristiani in crisi perché continuino ad operare nella storia, mirando non alla fine del mondo ma al fine della storia secondo il progetto divino.