I ragazzi mentre entrano nel campo di concentramento di Auschwitz. "Arbeit macht frei", "il lavoro rende liberi". Una macabra finzione linguistica per nascondere la disumanità di chi operò per la "soluzione finale" degli ebrei.
La quarta giornata, il 15 gennaio, è quella per cui tutti abbiamo aspettato, quella per cui ci siamo preparati in tutti questi giorni: finalmente visitiamo i campi di Auschwitz e Birkenau.
Dopo circa un’ora di autobus da Cracovia arriviamo al campo di concentramento di Auschwitz. Lì incontriamo Anna, la guida che ci avrebbe accompagnato dentro le mura di quel posto pieno di orrore. Qui il dolore fuoriusciva da ogni parete. Siamo entrati nelle varie baracche, inizialmente abitate dagli ebrei, ed oggi utilizzate per testimoniare gli orrori vissuti. Abbiamo visto le tonnellate di capelli tagliati, di scarpe, di valigie di quella gente che sperava in una nuova vita. E poi le protesi degli invalidi, i vestiti dei bambini che non vedevano l’ora di giocare, le pentole che le donne si portarono dietro, felici di poter cucinare i piatti tipici della loro cultura... Abbiamo sceso le scale fino a trovare le celle, grandi forse quanto un singolo box doccia in cui venivano rinchiuse anche quattro persone insieme, a volte anche per intere giornate.
Abbiamo visto le foto dei corpi mutilati, che hanno subito cose ben peggiori della morte, che alla fine sarà sopraggiunta come un sollievo; persone portate alla pazzia, private della propria identità, della propria intelligenza, delle proprie idee, della propria dignità. Corpi di bambini, vittime degli esperimenti del dottor Mengele; bambini privati di un infanzia e, nella maggior parte dei casi, anche di un futuro.
Una volta arrivati a Birkenau, la situazione non è che peggiorata, un posto impregnato di morte. Il battito accelerato sovrastava tutto: non puoi fare a meno di pensare che ovunque tu metta piede, lì è morta una persona. Io avevo paura, pensare che delle persone abbiano dovuto affrontare un martirio del genere solo perché ebree, omosessuali, rom o di diversa ideologia politica. Ci è stato raccontato di uomini che non volevano lasciare le proprie mogli, e di donne che non volevano lasciare i propri figli, ma questi venivano ingannati, gli veniva detto che si sarebbero rivisti dopo le “docce”, ma purtroppo sappiamo tutti che non è mai stato così. Venivano invece condotti nelle camere a gas, dentro alle quali ancora oggi ci si sente dentro l’anima pesante non appena vi si mette piede.
Abbiamo tutti vissuto un momento di commemorazione. Ad Auschwitz abbiamo scelto il nome di uno dei prigionieri, e lo abbiamo segnato su un biglietto; a Birkenau abbiamo ricordato tutti loro, dando un nome alle tante vittime non identificate dell’olocausto. Czeslawa Kowka, una ragazza morta a soli 14 anni. Io la ricordo.
Questi posti mi hanno fatto riflettere su quanto ognuno di noi sia ricco, solo per avere un letto in cui dormire, una casa calda in cui tornare, i nostri cari vicini e la possibilità di esprimere liberamente le proprie idee.
Tornare in ostello e passare la serata insieme, al caldo tra volti amici è stato come avvolgerci in un tenero abbraccio di cui tutti sentivamo il bisogno dopo una giornata cosi.