L a nostra parola «tempo» deriva dal latino e da un’antica radice, temb, che significava «percuotere», quasi a segnare lo scandire e il gocciolare delle ore e dei giorni. Da essa è fiorita una corolla di vocaboli: contemporaneo, tempesta, tempestivo, temporale, temperatura e persino temperare e strimpellare. In greco abbiamo, invece, due termini diversi. Il primo è chrónos (donde il nostro «cronometro» o «cronologia» o «cronistoria») che definisce il fluire del tempo oggettivo, misurato dagli orologi e dalle clessidre: nel Nuovo Testamento il vocabolo è presente 54 volte e risponde idealmente alla domanda «quando?», indica date, successioni temporali, in pratica il calendario.
La seconda parola è kairós e risponde invece all’interrogativo «come?», cioè designa il contenuto dei giorni e degli anni, gli eventi, le occasioni ed echeggia 85 volte. Per questo Gesù nella sua breve prima «predica» afferma che, con la sua venuta, il «kairós è giunto a pienezza» (Marco 1,15). È il momento della decisione che cambia la vita, è l’orizzonte nel quale noi costruiamo il nostro destino. La salvezza è, quindi, già nelle nostre ore, che non sono solo una successione «cronologica», ma un terreno nel quale è seminata la salvezza, in attesa che cresca fino alla fioritura piena del regno di Dio (Marco 4,26-29).
A questo punto, su un tema così vasto, proponiamo una riflessione generale. Il poeta latino Ovidio definiva il tempo edax rerum, cioè un vorace consumatore delle cose: certo è che il tempo è la qualità che più aderisce alla nostra realtà di creature finite, limitate, caduche. È quasi la definizione del nostro essere mortali, come canta il Salmista che compara «i giorni dell’uomo all’erba o al fiore del campo: una volta fiorito, lo investe il vento e più non esiste… Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica e dolore, passano presto e noi ci dileguiamo» (90, 5-6.10; 103, 15-16).
Si ha, così, nella Bibbia un forte senso del divenire dell’esistenza, dell’effimero in cui siamo immersi e della contrapposizione rispetto all’eternità divina, davanti alla quale «un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo» (2Pietro 3,8). Il tempo è, però, concepito nella Sacra Scrittura non come un vano dissolversi di ore e giorni “cronologici” nel baratro del nulla, bensì come un percorso di scelte e azioni che conducono la storia umana a una meta: significativa è, a riguardo, la stessa concezione messianica, protesa verso un futuro di salvezza, oppure la visione che il libro dell’Apocalisse ci raffigura presentando come approdo della nostra speranza la nuova Gerusalemme in cui non ci sarà più la morte (21,4).
Infatti, all’interno della sequenza temporale si insedia Dio stesso, colui che in realtà può trascendere il tempo abbracciandolo e superandolo nella sua tridimensionalità di passato-presente-futuro, perché il Signore è «Colui che è, che era e che viene» (Apocalisse 1,8). Le sue azioni salvifiche sono scandite in tanti eventi storici, kairoi, come la vicenda dei patriarchi, la liberazione dell’esodo, il dono della terra, lo stesso ingresso nel tempo del Figlio di Dio.
Si ha, così, una concezione sacra del tempo che diventa la casa anche di Dio e non solo dell’umanità (2Samuele 7). È per questo che per il fedele il calendario non è più soltanto civile ma anche religioso e liturgico, con la distribuzione dei sabati/domeniche e delle feste che sono segno della presenza divina nella qualità più specifica dell’uomo, la temporalità, ossia la storia che in tal modo è innervata di eternità e approda alla pienezza del giorno senza tramonto: «Sarà un unico giorno che il Signore conosce; non ci sarà né dì né notte e a sera risplenderà la luce» (Zaccaria 14,7)