Nel greco del Vangelo di Matteo la frase suona così: áphes hemín tà opheilémata hemòn, hos kai heméis aphékamen tois ophei-létais hemón (6,12). In ebraico, invece, potrebbe essere resa così: umhól lánu hovoténu ka’ashèr ’anu mohalím leva’alé hovoténu. Nell’aramaico parlato da Gesù potrebbe essere: ushebóq han hobáin kedishbáqnan lehaajjabáin. Infine, il latino di san Girolamo, che ancor oggi risuona nelle nostre liturgie, ci traduce ciò che conosciamo in italiano: Dimitte nobis debita nostra, sicut nos dimittimus debitoribus nostris. Nel linguaggio biblico il peccato è dfinito un “debito” che noi contraiamo con Dio e ci è condonato a patto che anche noi perdoniamo chi ci ha offeso. Significativo è anche l’appello di Paolo: «Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole» (Romani 13,8). C’è, però, anche una dimensione economica del debito che veniva esplicitata nello stesso Giubileo biblico (Levitico c. 25). Infatti, come avveniva la restituzione al primitivo proprietario dei terreni alienati, così da ritornare ogni 50 anni a una sorta di parità sociale, similmente per i debiti si procedeva a una loro cancellazione.
Forse si trattava di una norma non sempre praticata, tant’è vero che il profeta Geremia (34,14-17) protesta per il caso degli schiavi non liberati – un altro impegno giubilare – ma il suo valore è grande a livello morale, spirituale e sociale. È il tema del primato della destinazione universale dei beni rispetto alla pur legittima proprietà privata, come è ribadito da papa Francesco nella Fratelli tutti. Col Giubileo si cercava di riportare la comunità a un livello di ideale comunione dei beni nell’uguaglianza. Ogni famiglia otteneva di nuovo la sua dotazione economica, le sue terre e una sua autonomia dignitosa.
Suggestiva è l’esortazione del libro del Deuteronomio: «Non vi sia in mezzo a voi alcun bisognoso… Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello bisognoso, non indurire il cuore e non chiudere la tua mano» (15,4.7). Una scelta che non è soltanto modello ideale di fraternità e solidarietà, ma un impegno concreto della “mano”, cioè dell’azione caritativa e sociale. Si ricordi il profilo della comunità cristiana di Gerusalemme Gerusalemme nella quale – come ribadiva a più riprese Luca negli Atti degli apostoli – vigeva la koinonía, la “comunione” fraterna, per cui «nessuno diceva sua proprietà ciò che gli apparteneva, ma ogni cosa era per loro comune» (4,32).
A livello politico internazionale si pone il tema della remissione del debito che strangola certi Stati poveri: come diceva il messaggio papale per la Giornata della pace dello scorso Capodanno, sarebbe una sorgente di liberazione. A livello italiano ricordiamo il gesto giubilare di carità proposto dalla Conferenza episcopale italiana: sostenere il fondo nazionale per erogare microcrediti a chi ha difficoltà ad accedere al credito ordinario, un fondo gestito dalla Caritas e dalla Fondazione anti-usura.
A suggello di questa riflessione sull’indicazione del “Padre nostro” sopra citata, lasciamo al lettore di rileggere la parabola dei due debitori narrata da Matteo (18,23-35), memori a livello più generale dell’aggiunta di Gesù al “Padre nostro”: «Se perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi. Ma se voi non perdonerete gli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» (6,14-15).