Il brano dell’Esodo che ascoltiamo nella prima lettura è parte del prosieguo di quanto ascoltato nella settimana precedente. Ci troviamo ancora nel Sinai. Mosè, sceso dal monte con le tavole dei Comandamenti, sorprende il popolo in festa attorno al vitello d’oro e, preso dalla rabbia, scaglia le tavole spezzandole per poi gettarsi sull’idolo e distruggerlo. Dopo aver impartito una durissima lezione alla sua gente, sale nuovamente al monte per domandare clemenza a JHWH, il quale, fedele a se stesso, assicura l’arrivo nella Terra promessa. Il Signore, però, dichiara inizialmente che non sarà in mezzo al suo popolo ma si manterrà a una certa distanza.
Ecco, dunque, il racconto al cui centro c’è la Tenda del Convegno. Non è propriamente una dimora divina, piuttosto uno spazio dedicato all’incontro, un luogo in cui Mosè vedrà Dio, che sarà presente in modo occasionale. La distanza dall’accampamento rende concreta la decisione divina di non essere presente in mezzo al popolo. La funzione della tenda ribadisce chiaramente a chi compete il faccia a faccia con JHWH: il ruolo profetico e di mediatore di Mosè è sottolineato in tutta la sua forza, apparendo come imprescindibile.
La descrizione del momento in cui Mosè va alla Tenda è particolarmente solenne e simbolicamente esplicita: tutti sono schierati ad accompagnarlo con lo sguardo, in segno della ritrovata sintonia tra il popolo e la sua guida. Anche nel prosieguo della scena l’atteggiamento del popolo sembra radicalmente opposto a quello tenuto in occasione della costruzione del vitello. L’armonia con JHWH va gradualmente ricomponendosi.
Dunque, Dio continuerà la sua opera di liberazione e la sua presenza, come dal monte Sinai, sarà mediata dalla Parola. Dell’incontro con Mosè, infatti, viene detto anzitutto questo: Dio parlava con lui. Dio parla e continua a parlare, non toglie la parola, non chiude i discorsi, ma parla attraverso un profeta. Israele aveva smesso di ascoltare, si era indurito, aveva preferito un idolo manipolabile anziché restare dentro un dialogo fatto di fede e di amore. Credere a una parola significa entrare dentro una logica di reciproca donazione-accoglienza in cui la libertà e la verità sono i criteri perché il legame sussista. È un processo rischioso e precario, perciò Israele aveva preferito uscire dall’esercizio dell’ascolto affidandosi a un idolo muto. Dio rilancia il discorso, trovando stavolta corrispondenza negli Israeliti.
Anche i farisei dell’episodio del cieco nato tratto da Giovanni si dimostrano indisponibili ad accogliere una parola che racconta il volto di JHWH. L’indurimento caratterizza il loro animo e, benché credano di vedere chiaramente, i loro occhi sono velati e la loro religiosità cieca. Nel cieco guarito vi è l’immagine dell’esperienza fondamentale della fede: si comincia a vedere grazie a una Parola che apre gli occhi e offre uno sguardo profondo sulla vita, sul mondo, sull’umanità e su Dio che nessun’altra parola sa dare.