Il profeta Isaia, nel testo scelto per la prima lettura, annuncia l’inizio di un nuovo ordine stabilito da Dio. Il vecchio, dominato dalla violenza e dall’orgoglio, si è chiuso con la distruzione della «città del caos» (Isaia 24,10), ora il Signore regna su Sion e rivela la sua presenza gloriosa. Una grande festa verrà celebrata per l’incoronazione del Signore perché è finito il tempo delle lacrime e della morte, mentre si inaugura il tempo della gioia, dell’abbondanza e della pace.
Ma un’ombra permane. Tutti i popoli sono invitati al banchetto tranne Moab - nemico di Israele - come si legge nel versetto 10, purtroppo tagliato dalla selezione liturgica. L’autore biblico ha una ferita aperta che appare con la sua dolorosità nell’esclusione di Moab, creando così una forte tensione tra la gioia e il patimento, tra il dramma e la riconciliazione, tra la tribolazione e l’abbondanza.
Sono temi che ritornano in modo evidente nel racconto delle nozze di Cana, il cui ambito esistenziale di riferimento è la ricerca della felicità piena. Le parole della Madre che appaiono in questa cornice di significati chiamando Gesù all’azione sono una interpretazione della missione del Figlio: il compimento della vita piena e l’esperienza della beatitudine ne sono l’oggetto più proprio. La manifestazione della sua divinità intercetta esattamente quel bisogno, rivelando come Dio si preoccupi anzitutto che l’umanità abbia vita e l’abbia in abbondanza.
Cana racconta che c’è una forza che spinge nella storia perché i vuoti siano colmati, le sofferenze alleviate, le frustrazioni medicate.
È significativo però che sia una voce umana a farlo risaltare e che essa si levi in corrispondenza di una mancanza, cioè dell’esperienza del limite e della frustrazione.
Se a ciò accostiamo il fatto che Giovanni dissemina per il racconto rimandi alla croce e segni di fragilità e debolezza, si comprende che il prodigio non racconta di un Dio spettacolare e interventista, ma di altro. Giovanni parla dell’«ora». Si tratta del Calvario e del Dio ferito, debole e impotente che non ha sembianze divine ma porta i segni e segue le forme dell’umano. È il Dio che non impone la propria opera strapotente ma dà lo spazio alla capacità di operare il bene propria dell’umanità.
Inoltre, il miracolo è nascosto - tranne che per i servi - e frainteso, essendo letto secondo la prospettiva più immediata possibile. Un’azione divina viene così confusa con un’azione umana o, per meglio dire, Giovanni suggerisce l’idea che agire umano e divino non sono affatto facilmente separabili.
Di fatto, viene raccontata l’immagine di un umano che sposta i confini del «possibile», osando considerare ordinario quel che normalmente non lo è. È quel che Gesù fa nel suo agire annunciando come possibile amare il nemico, costruire la giustizia, portare la pace, perdonare le offese, condividere le risorse. Il Vangelo annuncia la «possibilità» di tutto questo. E a Cana c’è un Dio che chiama perché ognuno raccolga la sfida.