la pagina del vangelo di Giovanni di questa domenica è composta di solo quattro versetti, ambientati all’interno di una delle feste giudaiche, quella della Dedicazione del tempio, o di Chanukkah, a cui Gesù partecipa salendo a Gerusalemme. In quell’occasione si affollano intorno a lui alcuni Giudei per chiedergli di rivelarsi come il Messia. Gesù risponde loro che ha già detto – cioè, l’ha mostrato soprattutto con i segni – chi è, ma non gli hanno creduto, perché, spiega Gesù ai suoi interlocutori, «non fate parte delle mie pecore» (10,26).
Per quale motivo il Signore riprende l’immagine del pastore, a cui aveva fatto ricorso qualche versetto prima? Le pecore a cui alludeva Gesù all’inizio del capitolo decimo, e a cui si riferisce anche nella nostra pagina, sono quelle che lo ascoltano e che si fidano di lui e lo seguono. Ad esse, dice il Signore, è donata non solo la vita, ma la vita eterna. In questo tempo pasquale, il tema della vita eterna richiama il senso della morte e risurrezione di Gesù Cristo, come si legge in un testo che si collega a quanto detto ora, la Lettera agli Ebrei, in cui si legge che il «pastore grande delle pecore» è stato «ricondotto da morte» da Dio (13,20). In forza del fatto che egli stesso è passato dalla morte, Gesù può dare la vita eterna e proteggere le pecore da chi vuole rapirle.
Non è detto nel nostro brano chi voglia rapire le pecore, ma nel linguaggio sapienziale di Giovanni è come immaginata una lotta tra luce e tenebre (che già è annunciata nel Prologo di questo Vangelo) da cui si può partire non solo per comprendere le parole di Gesù, ma anche la nostra realtà. Si parla cioè di un dramma che ci vede tutti protagonisti, con due sole azioni possibili: o – ascoltando la sua voce – ci si lascia afferrare da Cristo (cf. Filippesi 3,12), oppure si viene rapiti da altri.
Il brano si chiude con un’affermazione, «Io e il Padre siamo una cosa sola», che implica che Gesù e il Padre, due persone, sono strettamente unite, come Gesù dirà anche più avanti, nel discorso d’addio, al capitolo 17, ribadendo la sua profonda unione col Colui dal quale viene e al quale vuole tornare. Se il compimento del tempo pasquale è Pentecoste, oggi ci viene ricordato che chi, come Gesù, è una «cosa sola» con il Padre, deve prima tornare a lui, in quel ritorno che verrà celebrato nella sua Ascensione, anché la Chiesa possa ricevere lo Spirito.
«Chi è nelle mani di Gesù è nelle mani del Padre; ciò è garanzia di sicurezza e di salvezza eterna, perché equivale a essere sotto la protezione di Dio» (R. Infante). Queste parole, a commento del Vangelo, valgono anche per la pagina dagli Atti degli Apostoli della prima lettura. Al ritorno dal suo terzo viaggio missionario, Paolo mentre passa per l’Asia Minore si ferma a Troade (ora nel nord-ovest della Turchia), e in occasione di un’assemblea eucaristica che si protrae tutta la notte, un giovane si addormenta e cade da una finestra, ferendosi a morte. La vita, grazie a Paolo, gli viene ridonata, per la potenza di Gesù Cristo, che strappa le sue pecore dalle tenebre.