Santo Stefano
Quest’ultima domenica dell’anno coincide con la festa del protomartire, Stefano. Luca nel libro degli Atti racconta la sua morte utilizzando un espediente letterario classico, confrontandola cioè con la morte di Cristo. Si tratta della synkrisis, che aiuta il lettore a cogliere la continuità tra il Vangelo e gli Atti, e tra Gesù e i suoi discepoli. Lungi dallo screditare la storicità degli eventi che Luca narra, questo procedimento – come altri che caratterizzano gli Atti degli Apostoli – orienta in modo teologico la comprensione di quanto raccontato.
In questo caso, il martirio di Stefano è ricalcato sulla morte di Gesù: come Gesù (solo nel racconto di Luca) dice «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Luca 23,34), così Stefano perdona chi lo sta lapidando: «Piegò le ginocchia e gridò a gran voce: “Signore, non imputare loro questo peccato”. Detto questo, morì» (Atti 7,60). In tal modo, Luca mostra che il destino di Cristo è lo stesso di chi lo vuole seguire.
La continuità tra il libro del vangelo secondo Luca e quello degli Atti degli Apostoli, però, esprime in particolar modo l’azione di Dio nella storia, anche quando Gesù non è più presente come lo era un tempo.
Ecco allora che se dalla morte di Cristo scaturisce la vita per tutti gli uomini, dal martirio di Stefano viene la salvezza anche per chi lo ha messo a morte. Non è un caso che tra i protagonisti della sua lapidazione Luca evidenzi particolarmente Saulo, che «approvava la sua uccisione» (Atti 8,1). Non sarà solo per l’esperienza sulla via di Damasco che Saulo cambierà la sua opinione su Gesù e la Chiesa: il modo in cui Stefano muore, perdonando e offrendo la sua vita, deve aver scosso colui che prima era «un bestemmiatore, un persecutore e un violento» (1Timoteo 1,13), e indurlo così a farsi battezzare.
Paolo, allora, è come una moneta d’argento scaturita dal martirio di Stefano, e questo ci riporta a una speciale moneta, il mezzo siclo di Tiro, pagato da Gesù come tassa per il tempio (Matteo 17,24-27). Questo episodio si trova solo nel primo Vangelo, ed evoca la delicata situazione della comunità giudeo-cristiana di Matteo, negli anni in cui il tempio non c’era più (perché distrutto nel 70 d.C. dall’esercito romano).
Gesù paga quella tassa, ma fornisce una ragione speciale al suo gesto. Ricorda a Pietro la libertà e la dignità dei figli, e il fatto che il Figlio non sarebbe obbligato al tributo; per non essere d’inciampo, però, Gesù preferisce pagare. Cosa significa questo per noi?
Il Natale è la memoria del Figlio che si è fatto carne, che entra nella nostra storia. Dal principio di incarnazione vengono la nostra dignità e la nostra libertà, quelle di tutti gli uomini, figli nel Figlio. «Riconosci, cristiano, la tua dignità!» – scriveva san Leone Magno in un discorso sul Natale – «e, reso partecipe della natura divina, non voler tornare all’abiezione di un tempo con una condotta indegna. Ricordati chi è il tuo Capo e di quale Corpo sei membro. Ricordati che, strappato al potere delle tenebre, sei stato trasferito nella luce del regno di Dio».