Dopo la memoria della creazione – sulla quale il lezionario ambrosiano si è soffermato domenica scorsa – ecco il racconto della disobbedienza dell’uomo e della donna al Creatore, narrato nel terzo capitolo del libro della Genesi.
San Giovanni Paolo II con il suo magistero ha divulgato quello che gli studiosi della Bibbia da tempo insegnavano, ovvero che il linguaggio con cui sono scritte queste pagine «è un linguaggio mitico. In questo caso, infatti, il termine “mito” non designa un contenuto fabuloso, ma semplicemente un modo arcaico di esprimere un contenuto più profondo. Senza alcuna difficoltà, sotto lo strato dell’antica narrazione, scopriamo quel contenuto, veramente mirabile per quanto riguarda le qualità e la condensazione delle verità che vi sono racchiuse» (Udienza generale, mercoledì 7 novembre 1979).
Nella pagina di questa domenica si legge della caduta del primo essere umano, o, meglio, come vedremo tra poco, della sua “disobbedienza”. Per essere precisi, dovremmo anche ricordare che il termine “peccato” nel terzo capitolo della Genesi non compare espressamente, mentre invece fa capolino più avanti, quando cioè un fratello (Caino) uccide il fratello (Abele): il primo peccato è un fratricidio, come Caino stesso riconosce («Troppo grande è la mia colpa»; Genesi 4,13). Ma la tradizione cattolica ha ragione quando parla, con riferimento al capitolo terzo di Genesi, del “primo peccato” o “peccato originale”: si tratta infatti di un grave atto nei confronti del Creatore, atto che è l’inizio o la causa e il paradigma di tutti gli altri peccati, con il quale l’uomo pretende di essere indipendente, libero e autonomo rispetto a Dio, decidendo da sé quello che è bene e quello che è male.
Dal linguaggio mitico però il lezionario ci chiede di passare a quello teologico e storico. È come se ci venisse detto di non soffermarci sul peccato, ma di portare avanti lo sguardo e di fissarlo su chi ha compiuto la redenzione, Gesù Cristo.
Paolo nella Lettera ai Romani ci restituisce, così, una delle più antiche riflessioni teologiche – tra quelle dei ventisette libri del Nuovo Testamento – circa il rapporto tra la caduta di Adamo e Cristo. Romano Penna spiega in questo modo semplice, ma efficace, il confronto tra la disobbedienza a Dio del primo, e l’obbedienza del secondo: «Se Adamo ha fatto una cosa sbagliata, Gesù Cristo ha fatto la cosa giusta!».
Ed ecco il passaggio alla storia, che avviene prima tramite le parole di Elisabetta a Maria nel canto al Vangelo («Beata colei che ha creduto all’adempimento di ciò che il Signore le ha detto»; Luca 1,45), e poi con la narrazione dell’origine di Gesù secondo Matteo. Nell’annunciazione a Giuseppe ritorna il tema della liberazione dal primo peccato, grazie alla spiegazione che l’evangelista dà del nome “Gesù”: «Dio salva» liberando Israele (il «suo popolo») dai peccati. Ma poi Gesù, nella sua ultima Cena, con le parole sul calice (Matteo 26,28), spiegherà che il suo sangue è per il perdono dei peccati di tutti, da quello di Adamo alle nostre cadute.