La liturgia della quinta domenica dopo il Martirio del Precursore ci fa incontrare una delle parabole più note del Vangelo di Luca: la cosiddetta «parabola del buon samaritano». La circostanza che l’evangelista costruisce per offrirne il racconto è un dialogo tra uno scriba e Gesù riguardo il raggiungimento della vita eterna. Si ragiona attorno all’osservanza dei comandamenti e la combinazione dell’amore per Dio e per il prossimo viene presentata come la chiave interpretativa della Legge.
L’unità dei due precetti non è una novità introdotta da Gesù, ma data per assodata già in precedenza, come prova la risposta dello scriba. Il centro della questione, però, non è l’amore in quanto tale ma il suo destinatario: «Chi è il mio prossimo?». Non sappiamo perché lo scriba voglia giustificarsi a riguardo, sta di fatto che il senso della sua domanda a Gesù sta nel voler delimitare all’interno del popolo dell’alleanza le frontiere dell’amore. Con la parabola, però, Gesù sposta completamente il piano della questione. Sceglie come primi personaggi due religiosi, non con l’intenzione di criticare il sistema del Tempio in spirito anticlericale, ma di creare un forte contrasto con il Samaritano, il quale, in quanto nemico odiato di Israele, è l’ultimo che ci si aspetterebbe di vedere entrare in scena. I racconti del tempo, infatti, avevano spesso una struttura tripartita nella quale il terzo passaggio era risolutivo. Dunque, lo scriba sapeva bene che col terzo personaggio ci sarebbe stato l’epilogo narrativo, felice o infausto. Alle sue orecchie e a quelle della mentalità comune, se il sacerdote e il levita non si erano fermati dal malcapitato, per lui non c’era alcuna speranza. Ecco, invece, il Samaritano.
L’effetto sugli ascoltatori dovette essere dirompente. L’ingresso del Samaritano come salvatore era la contraddizione palese delle normali aspettative dei contemporanei di Gesù. Peraltro, la descrizione delle azioni del soccorritore è fatta con estrema cura e insistendo sulla compassione del Samaritano. Per comprendere la forza di quanto Gesù racconta, va tenuto presente che il verbo originale del “compatire” indica lo stesso trasporto viscerale con cui YHWH guardava i deboli e i poveri. Che a un Samaritano impuro siano attribuiti gli stessi sentimenti divini è uno scandalo inaudito. Come se non bastasse, ecco il coinvolgimento dell’albergatore, anch’egli rappresentante di una categoria considerata impura perché lucrava sulla sacra ospitalità. Il Samaritano paga ma pretende, usando un imperativo, che il trattamento riservato sia lo stesso che lui ha garantito. La domanda finale di Gesù ribalta la prospettiva e lo scriba non può che riconoscerne la correttezza. Tuttavia, si limita a parlare di «pietà», anziché di «compassione». Mentre Gesù allarga gli orizzonti in cui alberga l’amore di Dio, lo scriba resta chiuso nelle sue ristrettezze. Attribuire a un uomo, per di più samaritano, la stessa capacità di amare di Dio, rimane per lui assolutamente inaccettabile.