Nella prima lettura della sesta domenica del tempo di Pasqua, ascoltiamo l’ultimo grande discorso di Paolo che viene pronunciato di fronte al re Agrippa e che, sostanzialmente, conclude il processo intentato dai Giudei nei confronti dell’Apostolo. L’autodifesa convincerà il re dell’innocenza di Paolo, ma non porterà a una conclusione felice. Essendosi ap- pellato a Roma, verrà portato in Italia, dove si conclu- derà la sua vicenda terrena.
Nel discorso rivolto ad Agrippa l’Apostolo parla per la terza volta dell’incontro con il Signore avvenuto sulla via per Damasco, stavolta nella forma di un «racconto di vocazione». Paolo parte da lontano, chiarendo anzitutto la propria identità a partire dalle sue radici e dai suoi trascorsi. Si dichiara non solo giudeo come coloro che lo accusano, ma anche fariseo, osservante rigido e scrupoloso delle prescrizioni della sua religione. Con gli altri Giudei si trova dunque a condividere la speranza che si compiano le promesse fatte da Dio ai loro padri e ha anche partecipato alla persecuzione di coloro che si dimostravano fedeli a Gesù, distinguendosi per lo zelo e la ferocia con cui lo faceva. Ora, però, si trova accusato proprio da coloro che condividono le sue stesse speranze per il fatto di averne annunciato l’avvenuto compimento nel Nazareno. Eppure, dice Paolo al re, non ha fatto altro che obbedire a una visione nella quale Gesù stesso gli è apparso come Signore, affidandogli l’incarico di annunciare il suo nome alle nazioni, chiamandole a conversione.
Da quel giorno, l’Apostolo non ha altro torto che aver predicato Gesù come il Cristo che, proprio come annunciato dalle profezie, doveva essere rifiutato, ucciso e, una volta risorto, avrebbe portato la luce a tutte le genti. È ciò che racconta anche il brano della Prima lettera ai Corinzi, che ascoltiamo come seconda lettura, sottolineando però con maggior forza ed efficacia il tema della Grazia a fronte dell’inadeguatezza di Paolo.
Questi sostiene, infatti, che non v’è alcun merito in lui nell’essere ciò che è diventato, ma tutto è frutto della Grazia e dono del Signore, in uno come lui che era da considerare al pari di un aborto. Dunque, egli non fa altro che consegnare ad altri ciò che a sua volta ha ricevuto, senza ragione alcuna se non una volontà divina mossa dall’amore per lui e per tutti coloro che beneficeranno del suo ministero. Tutto ciò non è certo stato esente da fatiche e travagli, ma la Grazia non è mai venuta meno. Che la testimonianza cristiana non sia un’espressione di forza ma il manifestarsi dello Spirito dentro la fragilità dei testimoni lo ribadisce anche il testo evangelico tratto dallo scritto di Giovanni.
Nel corso dell’ultima Cena, Gesù annuncia ai suoi che incontreranno la persecuzione e saranno colpiti da chi penserà onorare così il nome di Dio. Sperimenteranno dunque la debolezza e l’inadeguatezza, ma nell’affrontarle non saranno soli, lo Spirito li accompagnerà e non vi sarà testimonianza più grande che accoglierlo affidandosi ad esso, facendo memoria della promessa fatta loro dal Maestro.