L'esortazione per la nostra fede – a cui allude Paolo nella seconda lettura – questa domenica giunge a noi attraverso il patriarca Abramo, da cui discende anche il Signore Gesù, «figlio di Abramo» (Matteo 1,1). Il “nostro padre nella fede” – per richiamare un libro del cardinale Carlo Maria Martini – è l’argomento della disputa tra Gesù e alcuni Giudei, ma è evocato ancor prima da Mosè, nella lettura dal libro dell’Esodo.
La situazione appena dopo l’uscita dall’Egitto è grave, e descrive quello che nella sensibilità giudaica è considerato il “peccato originale” d’Israele, il vitello d’oro. Un ruolo importante, a riguardo, è svolto dal fratello di Mosè, Aronne, e se anche i commenti rabbinici tenteranno di attenuarne le responsabilità (dicendo che avrebbe cercato di tergiversare), queste sono evidenti nel libro del Deuteronomio, quando Mosè dice di aver pregato per il fratello contro il quale «il Signore si era adirato» (9,20). Dio è talmente deluso da Aronne e dal popolo, da pentirsi di aver stretto alleanza con essi, e li avrebbe sterminati, «se Mosè, il suo eletto, non si fosse posto sulla breccia davanti a lui per impedire alla sua collera di distruggerli» (Salmo 106). La leva su cui fa forza Mosè per convincere il Signore a perdonare è Abramo: la frase «Ricordati di Abramo!», pronunciata da Mosè, è paragonabile a quanto fa la Chiesa che rivolge al Padre ogni preghiera concludendola con la formula «per Cristo nostro Signore». La sinagoga, ancora oggi, sa che il cuore di Dio si commuove a sentire il nome del primo uomo ad aver creduto in lui (Genesi 15,6), Abramo.
Il Vangelo è un brano all’interno di un’accesa polemica che parte dall’affermazione di Gesù per cui la libertà viene dall’ascoltare la sua parola e «rimanere» (un verbo caro all’evangelista Giovanni) in lui. Gesù si trova a Gerusalemme, e si sta rivolgendo a coloro che gli hanno espresso fiducia, ma che all’affermazione sulla libertà replicano che essi sono già liberi, perché «seme» di Abramo. Ancora più clamore è suscitato da quanto Gesù dirà dopo, affermando di esistere «prima di Abramo». Si tratta di una delle vette più elevate della cristologia (cioè della riflessione sull’identità di Gesù), basata sul confronto con Abramo, che – afferma Gesù – aveva gioito vedendo da lontano il frutto più bello del suo seme, il Figlio di Dio. Giovanni sembra alludere all’interpretazione sinagogale di una frase tratta da Genesi 17,17, in cui si dice che Abramo «rise» alle parole dei tre angeli che annunciavano a Sara e a lui, ormai centenario, un figlio. I rabbini, anziché interpretare sia il riso di Abramo sia quello di Sara come espressione di incredulità, vedranno in esso la gioia per la futura nascita di Isacco e per il Messia che sarebbe venuto da lui.
Ma queste parole sono blasfeme per chi non accoglie la potenza di un Dio che può mantenere quella promessa che parte da Abramo e arriva a Gesù. Mentre alcuni cercano di lapidarlo, Gesù però «si nascose e uscì dal tempio»: non è ancora giunta la sua ora.