La recente riforma del Messale ha reintrodotto un’invocazione ecumenica, Kyrie eleison, Christe eleison, da sempre presente nella liturgia delle Chiese orientali. È proprio su questo verbo greco che ora ci soffermeremo: eleéô, usato 29 volte nel Nuovo Testamento, che genera il sostantivo éleos, "misericordia" (27 volte), l’aggettivo eleémôn, "misericordioso" (2 volte) e il sostantivo eleêmosýnê (13 volte), che ha dato origine alla nostra «elemosina». È interessante, al riguardo, la quinta delle Beatitudini del Discorso della montagna che intreccia aggettivo e verbo: «Beati i misericordiosi (eléemones) perché a loro sarà usata misericordia (eleêthésontai, dal verbo eleéô)» (Matteo 5,7).
In questa domenica voluta da san Giovanni Paolo II come la festa della Divina misericordia, approfondiremo, allora, una virtù particolarmente cara anche a papa Francesco. Nella bolla di indizione del Giubileo straordinario della misericordia celebrato nel 2016 egli ne offriva una triplice e intensa definizione: «Misericordia: è l’atto ultimo e supremo con il quale Dio ci viene incontro. Misericordia: è la legge fondamentale che abita nel cuore di ogni persona quando guarda con occhi sinceri il fratello che incontra nel cammino della vita. Misericordia: è la via che unisce Dio e l’uomo, perché apre il cuore alla speranza di essere amati per sempre nonostante il limite del nostro peccato».
San Benedetto nella sua Regola ammoniva a «non disperare mai della misericordia di Dio» (IV, 74). Sant’Agostino nelle Confessioni invocava Dio così: «Sia lode a te, a te gloria, fonte della misericordia! Io divenivo sempre più misero, e tu sempre più ti avvicinavi a me!» (VI, 16, 26). E come non ricordare la frase reiterata tre volte che, nel c. XXI dei Promessi sposi Manzoni mette sulle labbra di Lucia davanti all’Innominato: «Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!». Pietà, compassione, tenerezza, perdono: è una costellazione di virtù che accompagnano la misericordia.
In questa luce si comprende la bella definizione che san Paolo conia per il Padre celeste, «Dio ricco in misericordia (éleos)» (Efesini 2,4), mentre nella Lettera agli Ebrei è Cristo che è descritto come «il sommo sacerdote misericordioso (eleémôn)» (2,17). E anche se si usa un sinonimo greco diverso, il tema è applicato anche ai cristiani: «Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro» (Luca 6,36). E dato che abbiamo evocato i sinonimi greci della misericordia, non possiamo ignorare un verbo un po’ difficile ma suggestivo, presente 12 volte nei Vangeli: splanchnízomai.
Esso ricalca un sostantivo ebraico analogo (rahamîm) che indicava il grembo materno, le viscere generative, e che era applicato a Dio. Il verbo greco citato ha alla base lo stesso simbolo materno. Così, nella «parabola del figlio prodigo» il termine esprime il commuoversi del padre quando vede profilarsi all’orizzonte il figlio peccatore che era fuggito di casa e che ora ritorna pentito (Luca 15,20). Oppure è applicato al Buon Samaritano che si emoziona di fronte al ferito abbandonato dai banditi sul ciglio della strada (Luca 10,33).
Lo stesso Gesù ha il cuore attanagliato da questa tenerezza compassionevole e «viscerale» quando incrocia i sofferenti sulle strade della Terra Santa. Così gli accade quando s’imbatte nel funerale del ragazzo del villaggio galilaico di Nain, figlio unico di una vedova (Luca 7,13), o quando vede davanti a sé la folla affamata che lo ha seguito e ascoltato (Marco 6,34). Anzi, in quel caso esplicitamente confessa: «Provo misericordia (splanchnízomai) per questa folla che mi segue da tre giorni senza mangiare» (Marco 8,3). La stessa esperienza si ripete davanti ai due ciechi di Gerico (Matteo 20,34), oppure con un lebbroso (Marco 1,41): è, quindi, lo stile costante che segna l’atteggiamento di Gesù verso chi soffre.