Chi è stato pellegrino in Terrasanta ricorderà la tappa sulla vetta del monte degli Ulivi, col ricordo dell’ascensione al cielo di Cristo risorto. Lassù i bizantini, prima, e i crociati, poi, eressero un tempietto senza cupola (quella che c’è ora è stata imposta all’edificio quando fu trasformato in moschea) e su una roccia si mostrano, con un po’ di fantasia, le impronte dei piedi di Gesù nello slancio dell’ascesa al cielo. Il grande pittore Andrea Mantegna, alla fine del ’400, creerà uno stupendo trittico, conservato agli Uffizi di Firenze, centrato sul Cristo avvolto in una mandorla di angeli e sospeso in un cielo trasparente costellato di nuvolette.
In realtà, il senso profondo dell’evento dell’Ascensione che celebriamo in questa settimana (Luca 24,50-53; Atti 1,6-12) non è da intendere in senso spaziale, quasi fosse un’impresa astronautica. Infatti, l’area celeste è considerata come il simbolo dell’ambito divino: Gesù, che finora era nel nostro orizzonte terreno e storico, con la risurrezione ritorna nella gloria della sua eternità e infinità di Figlio di Dio. Ecco perché, sia Giovanni nel suo Vangelo, sia Paolo in alcuni passi delle sue Lettere presentano la Pasqua di Cristo come un “innalzamento”: abbiamo, così, scelto il verbo greco hypsóô, che ricorre 20 volte nel Nuovo Testamento e dal quale derivano altri vocaboli analoghi come il sostantivo hýpsos, «altezza» (6 volte) e il superlativo hýpsistos (13 volte) che evoca sia Dio l’“Altissimo”, sia le zone celesti.
Noi ci soffermeremo sull’“innalzamento” o “esaltazione” di Cristo come espressione della sua risurrezione. Rimandiamo subito al quarto Vangelo nel quale è registrato un dato interessante. Gesù presenta la sua elevazione sulla croce già come una vera e propria ascensione-risurrezione: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo… Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono [il nome biblico di Dio]… Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Giovanni 3,14; 8,28; 12,32).
Sulla croce, quindi, Cristo viene quasi insediato nella sua dignità di sovrano universale. Il supplizio del condannato si trasforma in un trono regale. La crocifissione è, dunque, già la sua glorificazione pasquale, e verso quel legno infitto tra le pietre del Golgota confluisce l’umanità redenta («tutti attirerò a me»). Nell’Incarnazione egli era sceso dal suo mondo divino venendo in mezzo e diventando simile a noi; con la morte egli conclude la sua parabola storica, ma è “innalzato” in quell’orizzonte trascendente, eterno e infinito che gli appartiene come Figlio di Dio.
San Paolo ha cantato questa discesa e ascesa nel celebre inno della Lettera ai Filippesi che citiamo ora, a suggello della nostra riflessione sul verbo hypsóô, nei suoi passaggi fondamentali: «Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo innalzò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra» (Filippesi 2,6-11). Già san Pietro davanti al Sinedrio aveva proclamato: «Dio ha innalzato Cristo alla sua destra come capo e salvatore, per dare a Israele conversione e perdono dei peccati» (Atti 5,31).