Il Lezionario della prima domenica di Avvento si apre quasi esplodendo tra le dita, o - per coloro che ascolteranno le letture durante la Messa - rimbombando nelle orecchie. Gianfranco Ravasi descriveva il genere apocalittico, quello a cui possiamo ascrivere il capitolo tredicesimo del vangelo di Marco (e il testo di Isaia e di san Paolo delle altre letture), come la «celebrazione di una conflagrazione, di un grande, lontano mirabile orizzonte» fuori dal nostro orizzonte concreto. Se noi siamo come quel discepolo che invita Gesù a contemplare la maestosità del tempio di Gerusalemme, fissati su ciò che esiste e si vede, il Maestro ci riporta a una realtà ulteriore, che spesso rimuoviamo, e che l’Avvento invece ci esorta a ricordare: le cose di questo mondo finiscono. Ecco perché il discorso di Gesù che inizia con la lettura di oggi è dedinito anche “escatologico”, ovvero sulle ultime cose. Prima di completare il suo ragionamento, iniziato con le parole sulla distruzione del tempio, Gesù attraversa la valle del Cedron e sale sul monte degli Ulivi: prende del tempo, si mette seduto -ammirando il “secondo tempio”, completato da Erode il Grande sul luogo dove si trovava il primo, costruito dal suo antenato, il re Salomone, figlio di Davide - e risponde alla domanda dei quattro discepoli che lo interrogano in disparte. Da ciò si deduce che le parole che Gesù sta per pronunciare sono delicate, al punto che verranno equivocate, e infatti ritorneranno sulla bocca di falsi testimoni che lo accuseranno di aver desiderato la distruzione del santuario (cf. Marco 14,58). Si tratta però di quello che è stato denito un insegnamento “esoterico”, per coloro che erano i più vicini al Signore, e quindi potevano ricevere tutte le spiegazioni necessarie per poi riferirle alle generazioni successive di cristiani. Gesù, a guardar bene, non risponde a tutti gli interrogativi che i quattro discepoli gli avevano posto, e soprattutto non dice “quando” accadranno gli eventi che annuncia. Da qui ne viene un richiamo alla vigilanza, un altro tema che percorre il tempo di Avvento, con l’imperativo «Vegliate!». Le parole di Gesù che descrivono la fine sono una ripresa di testi profetici: Isaia, Gioele, Daniele. Il genere apocalittico, che anche Gesù utilizza in questo suo discorso, trae origine dalla congiunzione di due correnti di pensiero, quella della sapienza e quella della profezia, che invitavano a riflettere sia sulle cose quotidiane, ordinarie, “piccole”, sia su quelle “grandi” (come la giustizia sociale): lo sguardo apocalittico ne prenderà l’eredità, interpretando il presente con simboliche forti e dai toni drammatici, ma sempre permeati di speranza. Gesù stesso non annuncia semplicemente la ne di un mondo, ma la sua trasformazione. Soprattutto, parla della venuta di un “Figlio dell’uomo”, la figura centrale del Vangelo odierno, con la quale si identificherà davanti al Sommo Sacerdote nel Sinedrio (Marco 14,62). Quell’uomo, già ora alla destra del Padre (come dirà Stefano in At 7,56), tornerà di nuovo - lo ha promesso - per salvarci.