Per la prima volta Gesù entra in quel tempo di Gerusalemme che da ragazzo dodicenne e da adulto frequenterà a più riprese. Ora è un neonato tra le braccia di sua mamma che lo presenta al Signore, durante il rito della purificazione imposta alla madre secondo la legge di Mosè (Levitico 12,2-4). Là il piccolo troverà l’abbraccio di una sorta di nonni adottivi, l’anziano Simeone e l’ottantaquattrenne Anna (Luca 2,22- 38). È l’evento che viene commemorato nella liturgia di questa domenica.
Subito dopo, la famiglia di Gesù ritorna nel suo villaggio sulle colline della Galilea, Nazaret. «Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza» (Luca 2,40) e diventava, anno dopo anno, un adulto, pronto a lasciare la sua casa per adempiere alla missione di annunciatore del Regno di Dio in parole e opere. Un giorno, però, ritorna nel suo paese, ed essendo un sabato, si reca nella modesta sinagoga di Nazaret, ove tiene la sua prima predica brevissima, affidata quasi integralmente a un brano del libro del profeta Isaia (61, 1-2), secondo quanto ci narra l’evangelista Luca (4, 16-21).
Egli vuole «proclamare l’anno di grazia del Signore»: è, in pratica, l’annuncio di un Giubileo che egli è venuto a proporre sulla scorta delle parole di Isaia. Quattro sono gli impegni da assumere. Il primo è «evangelizzare i poveri»: il verbo greco usato da Luca per tradurre l’originale ebraico del profeta citato è proprio quello che ha alla base la parola “evangelo”, la “buona novella”, il “lieto annuncio” del Regno di Dio. Destinatari sono i “poveri”, gli ultimi della società, privi della forza del potere politico ed economico, ma col cuore aperto alla fiducia nel Signore. Sono loro i primi attori del Giubileo, che dipendono esternamente e interiormente dalle mani di Dio e dei fratelli.
La libertà è il secondo atto giubilare, con riferimento esplicito ai prigionieri. In un’altra occasione Cristo stesso si identificherà con loro: «Ero carcerato e siete venuti a trovarmi» (Matteo 25,36). È facile pensare allo scandalo delle nostre carceri, ove sono recluse persone in condizioni così disumane da preferire talora il suicidio a una vita umiliante, oppure evocare le torture cui sono sottoposti i prigionieri di guerra.
Il terzo impegno è ridare «la vista ai ciechi», un gesto che Gesù ha spesso compiuto, essendo questa una sindrome diffusa nel Vicino Oriente. Secondo la Bibbia e la tradizione giudaica era un atto che segnava la venuta del Messia. La cecità, dura da vivere a livello fisico, era però anche un simbolo dell’ostinazione nel male e dell’incapacità di vedere in profondità e con gli occhi del cuore e dell’anima. Quarto e ultimo impegno è la liberazione degli oppressi, non solo sotto il tallone delle dittature e delle schiavitù ma anche da tutte le sofferenze e degenerazioni che attanagliano il corpo e lo spirito.
Una nota finale. I lettori che sono stati pellegrini in Terrasanta forse a Nazaret sono entrati in una chiesa dei Crociati, con volte a sesto acuto, denominata in arabo “la scuola del Messia”, proprio perché si era immaginato che in quel luogo sorgesse la sinagoga ove Gesù aveva tenuto la sua “predica” biblica sul Giubileo cristiano: aprire il cuore ai poveri, liberare i prigionieri, illuminare i ciechi, liberare gli oppressi.