«Bisogna avere la massima cura affinché l’ira non prevalga sulla mente, né domini come signora, ma sia una serva pronta a obbedire e in nessun modo si sottragga a seguire la ragione». Sono parole limpide di san Tommaso d’Aquino nella sua analisi dei vizi capitali, l’argomento che stiamo trattando nella nostra rubrica. Sotto esame è stato – e lo è anche questa volta – il quarto peccato, l’ira, in tutte le sue forme: da quelle minime e istantanee a quelle costanti e violente, intrise di odio e capaci di generare le guerre.
Ripetiamo anche in questa puntata che non bisogna confondere la rabbia furibonda e incontrollata con la giusta indignazione per il male e le ingiustizie. Non dimentichiamo l’autoritratto che Dio stesso offre nel libro dell’Esodo: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione» (34,6-7). C’è, dunque, l’amore misericordioso infinito («mille generazioni ») ma anche la giustizia perfetta (tre e quattro, con allusione al numero «sette» della pienezza).
Lo stesso Cristo, che si è presentato come «mite e umile di cuore», non ha esitato a impugnare la frusta contro i mercanti nel tempio di Gerusalemme denunciando a viso aperto la corruzione e la commistione tra affari e fede e ad attaccare «scribi e farisei ipocriti» definendoli «serpenti, razza di vipere, che non potranno scampare alla condanna della Geenna» (Matteo 21,12-23; 23,33). Già il profeta Amos nell’VIII sec. a.C., le cui pagine grondano di invettive contro gli scandali delle alte classi di Samaria, raffigurava il «giorno del Signore» e del suo giudizio sul male «come tenebra e non luce, come quando uno fugge davanti a un leone e s’imbatte in un orso; entra in casa, appoggia la mano alla parete, e un serpente lo morde» (5,18-19).
È un po’ in questa luce che devono essere interpretati i passi biblici che chiedono la vendetta a Dio, in particolare i cosiddetti «Salmi imprecatori». In realtà, essi sono espressione dello sdegno dell’orante di fronte alle ingiustizie sociali o sono segno della qualità della Bibbia di essere non tanto un catechismo di tesi teologiche perfette, ma un dialogo e una presenza reciproca tra Dio e umanità lungo le strade della storia, spesso segnate dalle nostre debolezze e cadute. Significativo è, in quei Salmi, il confidare a Dio l’atto finale del giudizio, pur esprimendo questo desiderio col turgore dell’ira propria delle vittime impotenti.
Ascoltiamone una testimonianza resa ancor più veemente a causa delle tonalità accese tipiche del linguaggio semitico. Non dimentichiamo che spesso nell’Antico Testamento la personalità di Dio (che non è un idolo freddo o un fato oscuro) è manifestata attraverso l’antropomorfismo, cioè l’attribuzione a lui di qualità umane, come appunto l’ira e la gelosia. Ma ecco la voce del Salmista: «Spezza, o Dio, i denti nella bocca, rompi, o Signore, le mascelle dei leoni; si dissolvano come acqua e si disperdano…; passino come la bava della lumaca che si scioglie, come aborto di donna non vedano la luce» (Salmo 58, 7-9). Tuttavia questa vendetta nella finale del Salmo è affidata a Dio: «Gioisca il giusto nel vedere la vendetta, lavi i suoi piedi nel sangue degli empi. Dicano gli uomini: Sì, c’è un premio per il giusto. Sì, c’è un Dio che fa giustizia sulla terra!» (58,11-12).