Ramoscello primaverile, a roselline, in boccio, aperte, / fra slanci leggiadri di foglioline, / accanto a un tenue fuscello stellante di candide trine, / nel semplice incanto dell’essere: / o Spirito del Signore, / che tutto abbracci e ricrei la faccia della terra, /amoroso lavoro il filo d’erba». Questi versi primaverili di un finissimo poeta e grande credente come il rosminiano Clemente Rebora (1885-1957) hanno nel cuore implicitamente la parola e la figura che in questa domenica di Pentecoste dobbiamo presentare.
È il vocabolo greco pnéuma che risuona ben 379 volte nel Nuovo Testamento e che – come nell’equivalente ebraico rûah da noi spiegato lo scorso anno tra le parole fondamentali dell’Antico Testamento – ha alla base il “respiro, il soffio, l’alito, il vento”. Esso, però, diventa anche il termine che indica sia il nostro spirito, sia lo Spirito Santo cantato da Rebora e celebrato oggi. Non per nulla anche la nostra parola “anima” rimanda al greco ánemos che significa “vento”.
È, allora, facile comprendere quella scena, a prima vista sorprendente, che gli studiosi hanno chiamato la “Pentecoste giovannea” e che vede come protagonista il Cristo risorto la sera stessa di Pasqua: «Gesù stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi. Detto questo, soffiò e disse loro: Ricevete lo Spirito (Pnéuma) Santo!” » (Giovanni 20,21-22). Cristo, subito dopo, assegna loro il potere di perdonare i peccati: lo Spirito Santo – che per ben cinque volte egli aveva promesso agli apostoli riuniti nel Cenacolo poche ore prima del suo arresto, durante il suo lungo discorso-testamento riferito dal quarto evangelista nei cc. 13-17 della sua opera – non è solo creatore ma anche redentore.
Infatti, da un lato, il Salmista cantava: «Mandi il tuo spirito e sono creati e rinnovi la faccia della terra» (104,30), come citava nei suoi versi anche Rebora. D’altro lato, però, lo Spirito Santo è anche sorgente della vita nuova attraverso la salvezza offerta nella rinascita battesimale, come insegnava Gesù a Nicodemo durante quel famoso incontro notturno: «Se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel Regno di Dio. Quello che è nato dalla carne è carne, quello che è nato dallo Spirito è spirito» (Giovanni 3,5-6). E Gesù aveva spiegato il tema ricorrendo proprio al contrappunto tra il vento e lo Spirito sulla base dello stesso valore sotteso al vocabolo pnéuma: «Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito» (3,8).
Non stupisce, allora, la scena di Pentecoste così come la rappresenta Luca negli Atti degli apostoli. Sui discepoli riuniti nel Cenacolo, «all’improvviso venne dal cielo un fragore, quasi fosse un vento che si abbatte impetuoso, riempiendo tutta la sala dove stavano… E tutti furono colmati di Spirito Santo» (1,2-3). San Paolo, poi, sempre sulla scia di questo “soffio” interiore che lo Spirito infonde nei battezzati dando loro una nuova vita rispetto a quella fisica, concluderà: «Voi avete ricevuto lo Spirito che vi rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: Abba’, Padre!» (Romani 8,15). Si genera, dunque, in noi una sorta di respiro spirituale interiore che unisce la nostra anima Dio stesso. È un’intimità che ci permette di dialogare con lui usando lo stesso appellativo aramaico affettuoso abba’, cioè “babbo”, che Gesù, il Figlio di Dio, indirizzava al Padre celeste nel suo dialogo con lui.