Era la Pasqua del 57 d.C. e l’apostolo Paolo si trovava ad Efeso, splendida città sull’attuale costa turca del Mar Egeo. Lo aveva raggiunto una missiva che gli segnalava la drammatica situazione della comunità cristiana di Corinto, la città greca dotata di ben due porti. Quella comunicazione gli era stata recapitata da alcuni funzionari di una donna manager, Cloe, che aveva una filiale della sua azienda anche ad Efeso. La Chiesa corinzia si stava sfaldando in fazioni opposte tra loro e degenerando dal punto di vista dottrinale, morale, liturgico e spirituale.
Paolo aveva, allora, dettato una lettera puntuale e severa, autenticandola con la sua firma («Il saluto è di mia mano, di Paolo»): sarebbe divenuta quella che chiamiamo Prima Lettera ai Corinzi. Ebbene, noi l’abbiamo ripresa in questa Pasqua 2023 e l’abbiamo inserita all’interno di quel viaggio piuttosto tenebroso che stiamo compiendo nell’orizzonte dei vizi capitali. È una sorta di sosta che fa respirare il lettore e che permette di celebrare la Pasqua, pur senza allontanarci dal filo tematico conduttore della nostra rubrica.
Tra l’altro, il brano che ritagliamo da quella Lettera viene proclamato anche nella Liturgia della Parola del giorno di Pasqua. Leggiamolo insieme: «Non è bello che voi vi vantiate. Non sapete che un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta? Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato! Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità» (5,6-8).
L’apostolo rimanda al rituale pasquale ebraico che impone ancor oggi di eliminare ogni residuo di pane lievitato presente nelle case. Al centro della tavola si deponeva l’agnello immolato, circondato da pani non lievitati, in greco «azzimi». La sua è una rilettura esistenziale e morale del rito: nella Pasqua cristiana al centro è collocato Cristo sacrificato, attorno a lui non possono fare corona persone corrotte, come lo è il pane fermentato raffermo, ma anime e corpi puri, simili per candore al pane azzimo.
In questa luce, Paolo introduce un contrasto tra vizi e virtù, proprio come accade nella proposta che noi stiamo facendo nella nostra rubrica, presentando prima i peccati capitali per far subentrare poi le virtù teologali e cardinali. Egli, che scrive in greco, denuncia l’irruzione del male nella comunità di Corinto attraverso due qualità perverse. Innanzitutto la kakía, la cattiveria, la malizia, la malvagità, un termine che risuona 11 volte nel Nuovo Testamento (in italiano abbiamo, ad esempio, «cacofonia» per indicare una disarmonia nel suono e nella voce). C’è, poi, la ponería che, con l’aggettivo ponerós, si ripete 85 volte nel Nuovo Testamento e sottolinea la dimensione perversa del peccato, tant’è vero che nel Padre nostro si invoca: «Liberaci dal male (poneroú)».
Il cristiano, conclude l’apostolo – deve invece essere testimone di eilikrinéia: la sincerità, la purezza, un termine usato solo da Paolo tre volte nelle sue Lettere. Deve, infine, essere amante dell’alétheia, la verità, una parola cara al Nuovo Testamento (109 volte), per indicare non solo l’onestà intellettuale ma la piena adesione al messaggio e alla persona di Cristo che si è definito così: «Io sono la via, la verità (alétheia) e la vita» (Giovanni 14,6).