«Quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anatre e i suoi tacchini, e strillava: Roba mia, vieni con me!». È questa la tragica fine di Mazzarò, il protagonista di una novella dal titolo espressivo, La roba, composta da Giovanni Verga (1883). Dal nulla economico da cui proveniva egli aveva «accumulato tutta quella roba» attraverso una sfrenata avarizia che si era manifestata persino nel funerale di sua madre, così semplificato da costargli – come ricordava – solo 12 tarì. Siamo, così, giunti nel nostro pellegrinaggio dissacrante attraverso i vizi al secondo della lista dei peccati capitali, l’avarizia appunto.
È un vocabolo che è assonante col verbo «avere», anche se in realtà deriva dal verbo latino audere, «osare», e che ha generato anche l’aggettivo «avido». Sì, perché si tratta di un vizio insaziabile, come già indicava il Qohelet biblico: «Chi ama il denaro, mai si sazia di denaro» (5,9). L’illusione, che ne è alla base, è quella di colmare il nostro incessante «desiderio» di infinito (non si dimentichi che questo vocabolo deriva dal latino de sideribus, «dalle stelle») attraverso realtà finite, le cose, vanamente moltiplicate e accumulate, nella speranza frustrata di bloccare la morte.
San Paolo in modo incisivo ha svelato la vera natura sacrilega di questo peccato, quando ai Colossesi scriveva che «l’avarizia insaziabile è idolatria» (3,5). Il denaro o i beni concreti diventano – come per Mazzarò – l’unico valore assoluto a cui tutto sacrificare, è il vitello d’oro da adorare con le sue liturgie ed esigenze sacre. Molti ricorderanno la celebre formula dell’Eneide di Virgilio, l’auri sacra fames (III, 57), ove l’aggettivo sacra significa soprattutto «esecranda», perché è un falso «sacro». È interessante ricordare che Gesù pone in alternativa Dio e Mammona: ora, questo vocabolo aramaico, che significa «ricchezza», contiene la stessa radice del verbo della vera fede, amen. È, quindi, una sorta di religione alternativa e blasfema.
Per questo, Cristo conclude: «Non potete servire a due padroni, a Dio e a Mammona» (Luca 16,13). L’apostolo Paolo commentava: «L’attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali. Per questo desiderio sfrenato alcuni hanno deviato dalla fede e si sono torturati con molte angosce» (1Timoteo 6,10). Ovviamente l’avarizia si oppone alla carità, ed è anche per questo che essa isola dagli altri. Forse la descrizione più viva di questa solitudine voluta, ma anche del suo miracoloso superamento con la grazia divina che può trasformare i cuori, è nel più famoso racconto di Natale dello scrittore inglese Charles Dickens, A Christmas Carol (1843).
Il vecchio avido Scrooge, in una solitaria notte di Natale, è visitato dallo spettro di un suo antico socio in affari defunto che gli fa rivivere la sua esistenza arida, aggrappata solo al possesso e spoglia di ogni amore e gli fa balenare la morte imminente. Scrooge ritorna in sé, senza sapere se ciò che ha vissuto è sogno o realtà, mentre suonano le campane della Messa di mezzanotte. Scatta, allora, la conversione, con un primo gesto di carità: a un suo impiegato maltrattato invia un tacchino perché la sua povera famiglia possa gioire. Come si intuisce nell’inizio e in questa conclusione del nostro articolo, la letteratura si è impossessata di questo vizio così impressionante attraverso un immenso repertorio di testi. Noi, invece, nella prossima tappa faremo risuonare soprattutto la Parola di Dio.