Quest'anno nella domenica dopo Natale la Chiesa ambrosiana celebra la memoria dell’apostolo Giovanni, a cui è generalmente attribuita la composizione dell’omonimo Vangelo. Il Lezionario è stato organizzato in modo da rendere onore all’apostolo, e infatti la prima lettura e il Vangelo sono tratti da quell’insieme chiamato “letteratura giovannea” o, da alcuni, “Pentateuco giovanneo”, composto dal Quarto Vangelo, da tre brevi lettere, e dall’ultimo libro del canone cristiano, l’Apocalisse. Anche se questi libri non si possono così facilmente attribuire alla mano di un solo autore, è però indubbio che essi hanno vari temi in comune, presumono uno stesso sfondo religioso e culturale, e soprattutto condividono uno stesso vocabolario, e quindi possono essere annoverati tra i testi nati in quella che doveva essere la “scuola” di Giovanni. Questo gruppo doveva essere molto diverso da quelle che erano, ad esempio, le Chiese paoline (fondate da Paolo di Tarso), e poteva avere come capostipite proprio uno dei Dodici, Giovanni, anche se qualcuno in antichità già distingueva tra due Giovanni (l’apostolo e il presbitero).
Così, leggendo attentamente la pagina del Vangelo di oggi ci accorgiamo che non vi appare il nome “Giovanni”, ma quello del «discepolo che Gesù amava». Di lui si è detto molto, e alcuni studiosi pensano che non sia una gura reale, storica, quanto piuttosto la rappresentazione del discepolo ideale, che ha seguito Gesù sino alla ne: è stato - come si legge nella pagina odierna - vicino a lui all’ultima Cena, e, soprattutto, non è fuggito come gli altri (Pietro, per primo) davanti alla passione del Signore: è il discepolo che, con la Madre di Gesù, è rimasto sotto la croce. Altri, invece, ritengono che sia un discepolo realmente esistito, e che aveva un ruolo importante. In ogni caso, è il discepolo che qui viene rappresentato nella luce più favorevole, diversamente da Pietro, che, se pur riscattato dal suo rinnegamento, è l’incarnazione di tutti i discepoli, incapaci di seguire il Maestro.
La pagina del Vangelo presenta Pietro che, voltatosi (smentendo così la sua vocazione di “seguire” Gesù) vede il discepolo prediletto, e vuole conoscerne il destino. Qui Gesù interviene in modo severo, e parla del “rimanere” del discepolo amato. Anche se non è aermato da Gesù che quel discepolo non sarebbe morto, ad egli è chiesto di “rimanere”. Tale espressione è stata spiegata in diversi modi: dimorare in Lui, con una vocazione più meditativa, contemplativa (Damiano Marzotto); il suo rimanere nella comunità ogni volta che è proclamato il suo Vangelo, ovvero con la sua testimonianza (Francis J. Moloney). Così riassume bene la questione Renzo Infante: «Gesù vuole che quel discepolo rimanga, non però nel senso di non morire, ma in un modo diverso, probabilmente con la sua testimonianza scritta nel libro e confermata dallo Spirito. Con essa egli rimarrà nella sua comunità sino al ritorno glorioso del Signore». Ogni volta che un libro del “Pentateuco giovanneo” è aperto, risuonano ancora le parole di quel discepolo che più è stato vicino a Gesù.