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domenica 26 marzo 2023
 
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Cardinale arcivescovo e biblista

THÁNATOS/NEKRÓS: morte, morto

La tradizione cristiana, sulla base della commemorazione liturgica dei Defunti il 2 novembre, ha dedicato questo mese alla meditazione sulla morte, una realtà esorcizzata dalla cultura contemporanea ma che inesorabilmente si presenta all’attenzione di tutti con le guerre, le catastrofi naturali, gli incidenti e, come si è sperimentato, con le pandemie. La nostra parola «morte» è di origine indoeuropea attraverso una radice (mrti) che denota la fine della vita e che è entrata in tutte le lingue neolatine, ma anche – in modo diverso – nel tedesco Mord e nell’inglese murder, ove però significa «assassinio, omicidio».

In greco abbiamo, invece, il vocabolo thánatos, presente 120 volte nel Nuovo Testamento e che affiora purtroppo nel nostro termine «eutanasia». «Certamente morrai!» è il gelido monito che risuona fin dalle prime righe della Bibbia (Genesi 2,16). La morte fisica è il segno del limite della creatura vivente che non è eterna come Dio, ed è il simbolo per rappresentare altre morti, quelle del peccato o dell’infelicità, della solitudine, della miseria, della violenza. Lo stesso Gesù davanti alla morte, nel Getsemani, invoca con l’angoscia  che attanaglia tutti noi: «Padre, se è possibile, passi da me questo calice!» (Matteo 26,39).

E la sua morte, aspra e solitaria («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»), lo rivela pienamente come nostro fratello perché è proprio il morire la carta d’identità comune a tutta l’umanità. «Gesù, lanciando un forte urlo, spirò», annota Marco (15,37), seguito da Matteo (27,50), mentre Luca precisa che egli, «gridando a gran voce: Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito e, dopo aver detto questo, spirò» (23,46).

Tuttavia il sipario non cala sulla scena del Calvario. Nel Nuovo Testamento s’affaccia anche l’espressione «risurrezione dai morti». Per questo abbiamo unito a thánatos un’altra parola greca nekrós, «morto», che si incontra 128 volte e che abbiamo anche in italiano, ad esempio, nel termine «necrologio». Con la Pasqua di Cristo il duello tra vita e morte giunge a uno sbocco inatteso: «La morte è stata inghiottita nella vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge. Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!» (1Corinzi 15,54-57). Cristo, il Figlio di Dio, passando all’interno della nostra mortalità fisica e spirituale, l’ha infranta e l’ha fecondata con un seme d’infinito. Egli è la «primizia» di coloro che sono morti e che risorgeranno, secondo la famosa immagine paolina.

È per questo, allora, che tra i cittadini della Gerusalemme sperata e attesa, tratteggiata nell’ultimo libro della Bibbia, l’Apocalisse (c. 21), sarà per sempre assente la morte: «Egli tergerà ogni lacrima dai loro occhi, non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento». «E noi saremo sempre col Signore» in una comunione di amore e di eternità (1Tessalonicesi 4,17).

Un racconto giudaico noto anche al mondo islamico descrive così la morte di Abramo, nostro padre nella fede: «Abramo, quando l’angelo della morte venne per impadronirsi del suo spirito, gli obiettò: Hai mai visto un amico desiderare la morte dell’amico? Ma il Signore stesso gli rivelò: Hai mai visto un amante rifiutare l’incontro con l’amato? Allora Abramo disse: Angelo della morte, prendimi!».


03 novembre 2022

 
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