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Cardinale arcivescovo e biblista

Tu sei Pietro

"Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze dell’Ade non prevarranno su di essa.
(Matteo 16,18)."

Avanza il Papa nel grandioso scenario della basilica di San Pietro e il coro della Cappella Sistina intona il canto possente del Tu es Petrus: è questa un’esperienza emozionante che tutti i lettori hanno fatto almeno una volta in vita, giungendo a Roma come pellegrini.
Era, quindi, necessario che proponessimo anche noi all’interno della nostra antologia questo passo biblico capitale, includendovi idealmente il versetto successivo che lo completa: «A te darò le chiavi del Regno dei cieli: ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli e ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (16,19).

Tre sono i simboli che reggono questo frammento del Vangelo di Matteo. Il primo e fondamentale è quello della «pietra» o roccia, un segno classico nell’Antico Testamento per indicare la fiducia che solo Dio può dare in modo incrollabile: «Ti amo, Signore, mia forza, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore, mia rupe in cui mi rifugio» (Salmo 18,1-2). Nella lingua originaria usata da Gesù, l’aramaico, si usa una sola parola, kefa’ (divenuta il nostro Cefa) che è «pietra» e «Pietro» senza variazione di genere, come accade invece in greco e in italiano. È interessante notare che nel Nuovo Testamento la pietra fondante è un simbolo applicato solo a Cristo e a Pietro. L’Apostolo, quindi, rende visibile nella storia la “fondazione” primaria e divina di Cristo.

Per questa via Gesù non vuole lasciare isolati e dispersi i suoi seguaci, ma raccoglierli in una comunità strutturata, la Chiesa appunto, un termine greco che significa “convocazione” da parte di Dio di un’assemblea, proprio come si aveva nel vocabolo equivalente ebraico qahal che indicava la “chiamata” di Dio rivolta a Israele per unirsi in una “comunità” liturgica e spirituale. Dalla pietra basilare di fondazione sulla quale si erge la casa ideale della Chiesa si passa alle «chiavi» per aprirne la porta ed essere ammessi.

Il simbolo incarna, dunque, l’autorità su una casa, una città, un regno. È illuminante, al riguardo, quanto scrive il profeta Isaia in occasione di un avvicendamento nella carica del maggiordomo regio di Gerusalemme, in pratica del primo ministro. A un certo Sebna subentra Eliakim e a lui si annunzia: «Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide: se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire» (Isaia 22,22). È anche qui significativo notare che solo Cristo e Pietro hanno in mano questa chiave nel Nuovo Testamento. Infatti, nell’Apocalisse (3,7) si legge: «Così parla il Santo, il Veritiero, Colui che ha la chiave di Davide: quando egli apre nessuno chiude, quando chiude nessuno apre».

È così pronto attraverso questa metafora – che ha dato il titolo anche a un fortunato romanzo di Archibald J. Cronin, Le chiavi del Regno (1942), dedicato alla missione sacerdotale – il terzo e ultimo simbolismo, quello del «legare e sciogliere», parallelo all’«aprire-chiudere» connesso alle chiavi. L’immagine è ben nota anche nella tradizione giudaica ed è di stampo giuridico: il «legare e sciogliere» indica innanzitutto il potere di giudicare e di perdonare i peccati nel nome del Signore, come Gesù ripeterà anche per gli altri apostoli: «Tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo» (Matteo 18,18). E come il Risorto ribadirà, esplicitando il valore del simbolo, nell’incontro con gli apostoli la sera di Pasqua: «A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati » (Giovanni 20,23).


18 agosto 2011

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