«Guardatevi, signore, dalla gelosia: è un mostro dagli occhi verdi che irride il cibo di cui si nutre». È il 1604 quando Shakespeare compone una delle sue tragedie più celebri, l’Otello, dalla quale abbiamo tratto questa definizione di un profilo particolare del vizio dell’invidia che stiamo considerando in queste puntate del nostro viaggio nel mondo oscuro dei peccati capitali. Come nel dramma dell’autore inglese e nell’omonima opera lirica di Giuseppe Verdi (1887), l’esito della gelosia può essere sconvolgente e purtroppo incarna una terribile realtà quotidiana, il cosiddetto femminicidio.
Come è noto, Otello soffoca la moglie Desdemona e, appresa la verità dell’innocenza della donna, si trafigge con la spada. Alla base di tutto c’era un altro vizio non elencato nel settenario che stiamo descrivendo, la calunnia, quel «venticello... che sibilando va scorrendo, va ronzando nelle orecchie della gente», come canta don Basilio nel Barbiere di Siviglia di Rossini. La maldicenza è spesso la radice tossica della gelosia. Ora, però, torniamo al peccato dell’invidia, rileggendolo ancora una volta alla luce della Bibbia.
Infatti, nella predicazione di Cristo esso faceva capolino, come nel caso della parabola del figlio prodigo. In essa si affaccia il geloso e astioso fratello maggiore, adirato per l’accoglienza festosa assegnata dal padre a quel figlio scapestrato rinsavito (Luca 15,11-32). Invidia che esplode anche in quegli operai che, pur essendo stati regolarmente retribuiti come da contratto, protestano per il trattamento generoso riservato dal padrone ai loro colleghi dalla prestazione minore, come si narra nella parabola dei lavoratori nella vigna (Matteo 20,1- 16). Lo stesso cristianesimo delle origini, pur ribadendo il principio di uguaglianza e di fraternità, ha dovuto fare i conti con le rivalità e le contese all’interno delle stesse comunità ecclesiali.
San Paolo, nel c. 12 della Prima Lettera ai Corinzi, aveva cercato attraverso la metafora del corpo, unico come organismo ma molteplice nei suoi organi, di armonizzare unità e diversità. Eppure già sapeva che sarebbe accaduto ciò che simbolicamente descriveva: «Molte sono le membra, uno solo è il corpo. Non può dire l’occhio alla mano: Non ho bisogno di te! Né la testa ai piedi: Non ho bisogno di voi!» (12,20-21). Ecco, invece, scoppiare – proprio a Corinto – divisioni in sette e fazioni, in fiera contesa tra loro: «Dal momento che c’è tra voi invidia e discordia, non siete forse carnali e non vi comportate in maniera tutta umana?» (3,3). Anche tra gli stessi amatissimi cristiani della città macedone di Filippi Paolo individua «alcuni che predicano Cristo per invidia e spirito di contesa… e rivalità e con intenzioni non pure» (Filippesi 1,15-17). A tutti impone di «non far nulla per spirito di rivalità e di vanagloria ma che ciascuno con piena umiltà consideri gli altri superiori a se stesso, senza cercare il proprio interesse ma quello degli altri», sul modello di Cristo che, «pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo» (2,3-7).
Lo stesso rimprovero l’apostolo lo riserva ai cristiani delle comunità guidate dal discepolo Timoteo, ove si annidano falsi maestri che fomentano «invidie, litigi, maldicenze, sospetti cattivi» (1Timoteo 6,4), segno di un passato fatto di un’esistenza immersa «nella malvagità e nell’invidia» (Tito 3,3). È ciò che ribadirà anche san Giacomo nella sua Lettera: egli nell’«invidia e nello spirito di contesa» vede il segnale dell’azione di una «sapienza terrena, carnale, diabolica» (3,15-16). Il cristianesimo ha, infatti, nella carità il suo vessillo e nell’altruismo, nel rispetto, nell’apprezzamento, nella generosità il suo comportamento costante.